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C’era una volta un paese dove ad ogni isolato campeggiava un’immagine del supremo leader Mu’ammar Gheddafi. Foto, murales, dipinti e persino mosaici, a perenne memoria della rivoluzione verde, in auge per oltre quarant’anni nella nazione più controversa della sponda sud del mediterraneo, la Libia.
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C’era una volta un paese dove ad ogni isolato campeggiava un’immagine del supremo leader Mu’ammar Gheddafi. Foto, murales, dipinti e persino mosaici, a perenne memoria della rivoluzione verde, in auge per oltre quarant’anni nella nazione più controversa della sponda sud del mediterraneo, la Libia.
Ora tutto questo non esiste più, il culto della personalità del dittatore africano è stato spazzato via dalla rivoluzione popolare del 2011, supportata dai bombardamenti francesi, inglesi ed americani. La comprensibile furia iconoclasta però non si è limitata alla distruzione di ogni simbolo della stagione del potere del colonnello Gheddafi. I militanti islamici, principali fautori insieme alle milizie di Zintan della lotta contro il dittatore, hanno messo al bando ogni rappresentazione dell’uomo e persino di ogni specie animale.
Un’orgia di distruzione che non si è fermata neanche davanti ai graffiti rupestri risalenti all’età neolitica, devastati con scalpelli e vernice spray. Una violenza che, nelle intenzioni degli islamisti più conservatori, è figlia della corretta interpretazione del Corano. Una guerra culturale che ci riporta ai secoli più bui del Medioevo quando, per un breve periodo, anche nella chiesa cristiana dell’impero bizantino prese piede l’odio per ogni immagine antropomorfa.
Secondo la visione di questi vandali della cultura, infatti, solo Dio poteva e può creare l’uomo e le immagini a sua sembianza. Una folle ignoranza, che nell’Afghanistan dei Talebani aveva portato alla devastazione dei giganteschi Buddha di Bamiyan, fatti saltare in aria con cariche di esplosivo. Poi è stata la volta di alcune antiche chiese cristiane della piana di Ninive, nel nord dell’Iraq, rase al suolo dagli uomini del califfato islamico di Abu Bakr Al Baghdadi. Ora è il turno della regione di Derna, a poche centinaia di miglia nautiche dalle coste della Sicilia, dove gli islamisti hanno proclamato un califfato in salsa mediterranea ma non per questo meno crudele.
Le testimonianze che ci arrivano da questa regione orientale della Libia, ci raccontano dell’instaurazione di una legge fondata su un’interpretazione della sharia particolarmente intransigente, dove le donne sono assoggettate agli uomini e costrette a vestire dei coprenti burka, completamente estranei anche alla tradizione islamica africana. Inoltre le sfortunate donne di Derna sono state private di ogni forma d’istruzione, recluse in casa da dove possono uscire solo se accompagnate dai membri maschili della famiglia.
Per tutto questo, per il rispetto della vita umana e per la difesa della millenaria cultura che dalle sponde del mediterraneo si è irradiata in ogni angolo del mondo, è giunta l’ora di intervenire e sradicare definitivamente questo cancro che ci riporta negli angoli più bui della storia. Lasciare al proprio destino di violenza questa provincia d’Africa sarebbe assai più grave che tollerare le pur sanguinose mattane del colonnello Gheddafi. Perché se l’annunciata marcia islamica su Roma ci sarà è da questa città della Cirenaica che partiranno le prime avanguardie. E noi, nel nome dei valori che contraddistinguono l’essere umano, dobbiamo fermarle.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::275::/cck::