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Poco meno di un quinto del proprio territorio e del 10% della sua popolazione ormai può dirsi fuori del controllo delle istituzioni della Repubblica federale della Nigeria.
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Poco meno di un quinto del proprio territorio e del 10% della sua popolazione ormai può dirsi fuori del controllo delle istituzioni della Repubblica federale della Nigeria.
Gli assalti di Boko Haram dell’ultima settimana portati per la prima volte nei pressi di Gombe, capitale dell’omonimo stato, aggiungono anche questo stato della Nigeria a quelli di Borno, Yobe e Adamawa, sotto il controllo della setta: sul Nordest della Nigeria la sovranità dello Stato vacilla paurosamente.
Il resto del Paese vive nell’incertezza, con forti sussulti di instabilità che si avvertono nel settore economico tra la svalutazione della naira, la moneta locale, ed il crollo del prezzo del petrolio, principale risorsa del Paese. Gli investitori subiscono l’incertezza sulle perdite nei profitti, temono possibili espropri e l’incremento della criminalità, una vera minaccia alle infrastrutture: l’impegno sul fronte militare sottrarrebbe risorse normalmente destinate al loro controllo, rendendone l’utilizzo sempre più a rischio.
I rischi di una dittatura militare, meno temuta dagli investitori ma malvista da una parte della popolazione, non sembrano poi così improbabili, solo che si osservi la storia della Nigeria dall’indipendenza (1960) ad oggi. Il premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka, nel suo libro “Sul far del giorno”, tra i pochissimi tradotti in italiano, ne elenca ben nove avvenuti nei 40 anni del secolo scorso.
La credibilità delle istituzioni nigeriane è in caduta libera. Non si tratta soltanto delle recenti scaramucce verbali tra militari della coalizione voluta dall’Unione Africana, comprendente tutti i paesi confinanti con la Nigeria, Benin, Niger, Chad e Cameroon, che hanno registrato accuse di “codardia” nei confronti degli insurgents rivolte da esponenti militari del Niger ai colleghi nigeriani. Ben più pesanti sul piano internazionale appaiono lo scontento degli Stati Uniti per il rinvio di sei settimane delle elezioni presidenziali e legislative e la presa d’atto degli osservatori del Commonwealth, invitati a verificarne il regolare svolgimento, che, giunti in Nigeria il 7 febbraio scorso, hanno constatato il loro rinvio deciso il successivo giorno 8.
Per non parlare della Francia, peraltro alla spasmodica ricerca di un ruolo internazionale degno della persa Grandeur, che nel maggio dello scorso anno aveva riunito a Parigi i capi dei cinque, Nigeria e stati confinanti, per reagire alla destabilizzazione della Nigeria messa in atto da Boko Haram. Oggi, Holland si sente lasciato solo dagli altri paesi occidentali a sopportare il peso dell’aiuto alla Nigeria, imperniato sul Chad, dove ha sede un organismo di intelligence francese, installato con finalità di antiterrorismo. Anche se la forza militare del Chad appare di gran lunga superiore a quella degli altri quattro paesi della colazione, essa è, tuttavia, inadeguate ad operare su grandi distanze e per molto tempo.
Ma nonostante la forza militare riconosciuta al Chad, lo scorso venerdì 13 febbraio ha fatto registrare il primo attacco sul territorio ciadiano, a meno di 12 kilometri dal confine con la Nigeria, ad opera della setta. L’incursione è stata avviata a bordo di piroghe a motore con obiettivo il villaggio di pescatori di Ngouboua nel lago Chad che ospitava molti rifugiati nigeriani sfuggiti all’attacco dei primi di gennaio portato contro la città di Baga, a meno di venti chilometri dal confine con la Nigeria.
Per completare il quadro di riferimento internazionale è bene dare conto di due avvenimenti. Il primo è la singolare richiesta di aiuto rivolta dal presidente Jonathan Goodluck agli USA con un’intervista rilasciata al “wsj.com” lo scorso 13 febbraio in cui ha affermato di aver richiesto agli Usa fin dall’inizio del 2014, truppe operative e consiglieri militari, sulla base di informazioni di intelligence secondo cui i militanti di Boko Haram stavano ricevendo “addestramento e risorse finanziarie” dallo Stato Islamico, il gruppo jihadista con leadership in Iraq e Syria.
Naturalmente, la secca smentita ad opera di un alto ufficiale del Dipartimento di Stato è stata immediata e non può sfuggire sul piano diplomatico lo “sgarbo” non tanto del diniego, quanto del fatto che la smentita sia stata affidata ad un burocrate, invece che al Ministro degli Esteri.
Sempre sul piano internazionale e con riferimento agli strumenti di contrasto alla setta, bisogna segnalare l’uscita polemica del ministro della difesa del Sud Africa, Signora Nosiviwe Mapisa-Nqakula, la quale, con riferimento a dei “mercenari” sudafricani che fornirebbero consulenza militare alle truppe nigeriane, ha dichiarato che saranno arrestati al loro rientro in patria, perché stanno fornendo i loro servizi al di fuori del quadro di riferimento politico di sua competenza.
Rincarando la dose, poi il ministro sudafricano ha aggiunto che nessun operatore della Difesa Nazionale è stato inviato in Nigeria e che nessuna richiesta di assistenza o di aiuto è pervenuta dalla Nigeria.
A parte le polemiche che non aiutano a risolvere i problemi, lo scorso lunedì 16, sotto la direzione del ciadiano Brigadier Generale Zakaria Ngobongue, hanno preso il via le esercitazioni annuali Flintlock di cooperazione internazionale sulle tecniche antiterroristiche: condivisione di intelligence, tecniche di pattugliamento, di sopravvivenza nel deserto, operazioni aeree e tiro.
“Nigeria’s Military Quails When Faced With Boko Haram”
In un articolo apparso su Time.com, a firma di Aryn Baker, il 10 febbraio 2015, l’attacco sferrato all’esercito nigeriano si presentava impietoso, fin dal titolo “L’esercito nigeriano s’impaurisce di fronte a Boko Haram”.
Più di 10mila morti ed 1.5 milioni di profughi nello scorso anno, tre stati del nord est della Nigeria, della dimensione del Costarica sono i numeri con cui la setta si presenta.
J. Peter Pham, direttore dell’Africa Center del Consiglio Atlantico di Washington D.C., afferma senza mezzi termini che l’esercito nigeriano ha vissuto negli ultimi 16 anni, dalla fine della dittatura, un costante declino dovuto alla combinazione di scarsa leadership, corruzione, formazione inadeguata, direzione sbagliata, nel quadro di una successione di governi civili sempre preoccupati di altri colpi di stato che lo hanno privata delle risorse chiave.
A ciò si aggiunga il problema della dimensione: un esercito permanente di 90mila uomini, dai quali bisogna sottrarre i non combattenti infermieri, medici, personale amministrativo e polizia militare, tutti non combattenti, ed ancora gli oltre 3mila soldati impegnati in missioni di pace per conto dell’ONU.
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::autore_::di Giorgio Castore::/autore_:: ::cck::425::/cck::