La parola

Dittatura

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Settant’anni di democrazia, la prima vera democrazia realizzatasi nel nostro Paese, non sembrano essere sufficienti a garantire un confronto e un dibattito all’altezza dei valori in gioco.

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Settant’anni di democrazia, la prima vera democrazia realizzatasi nel nostro Paese, non sembrano essere sufficienti a garantire un confronto e un dibattito all’altezza dei valori in gioco. Colpa della Carta fondamentale e dei suoi obiettivi irrealizzati? No! Certamente! Colpa irrevocabile ed irrefutabile della classe politica e del suo degrado.
Ecco perché, contro la logica, contro la decenza, contro l’ironia, la parola che più appare nell’agone è una sola: dittatura!
Sia essa della maggioranza, della minoranza, dell’uomo solo al comando, non passa giorno che voci “autorevoli” – provenienti peraltro in massima parte da culture che con la democrazia vera poco hanno avuto a che fare in passato – accusano chiunque governi o cerchi di decidere, indichi una possibilità di cambiamento e cerchi di porla in essere, di avere tendenze dittatoriali, autoritarie e via discorrendo con il corredo da terza internazionale che si voglia.
Ora, che il potere affascini e spinga a pensare di poter fare da soli, può essere un sentimento che alberga in qualche mente, ma che la democrazia italiana sia a rischio di dittatura, non solo è fantascientifico, ma addirittura è idiota!
Giova ricordare un attimo che cosa significhi in origine il termine dittatura. Era una magistratura straordinaria romana, fornita di imperium (imperium maius), cioè della pienezza dei poteri civili e militari. Poteva sospendere tutte le altre magistrature. Il dittatore non poteva durare in carica oltre sei mesi; aveva 24 littori, era nominato su richiesta del senato dai consoli, più tardi fu eletto dai comizi. La data dell’istituzione è assegnata al 501 o al 498 a.C. e il primo dittatore sarebbe stato Tito Larcio o Manio Valerio. L’origine va connessa probabilmente con il dittatore della Lega latina, magistrato che per la natura stessa della lega dovette essere straordinario e dotato di pieni poteri.
In epoca moderna il termine ha continuato a indicare sistemi di governo contraddistinti da una forte concentrazione di poteri nelle mani di un individuo o di un gruppo ristretto di individui, ma ha perduto del tutto (o quasi del tutto) qualsiasi riferimento al carattere eccezionale, limitato e temporaneo di tale concentrazione di poteri e soprattutto alla sua natura ‘costituzionale’. In tal modo, insieme ai concetti solo in parte analoghi di dispotismo e di tirannide, è diventata una delle categorie che vengono di regola utilizzate per definire quell’ampio spettro di regimi politici autoritari, illiberali e antidemocratici (o non democratici) che, talora fondati su un ampio consenso di massa, attribuiscono a un capo o a un piccolo gruppo di persone poteri arbitrari e privi di controllo.
Le dittature moderne e contemporanee hanno assunto molteplici forme. Sono state dominate da élite politiche o militari. Hanno assunto profili rivoluzionari, conservatori o reazionari. Si sono fondate sul ruolo determinante di una singola personalità oppure di oligarchie politiche, burocratiche o di partito.
Ecco, dunque. Si rilevano queste caratteristiche nello scenario politico italiano? Stando a una martellante, costante pubblicistica, il rischio è sempre dietro l’angolo. Nella realtà non è neppure all’orizzonte. E che si cerchi il consenso lanciando allarmi in questa direzione e che questi allarmi vengano o da aree politiche nelle quali vigeva il “centralismo” o da quelle nelle quali la figura carismatica dell’unico leader è alla stessa origine della forza politica, appare quanto meno singolare ed espone, questo sì a non poche riflessioni.
Le grandi parole sulla fratellanza, sull’inclusione, sul superamento di steccati storici, pur nell’accettazione della realtà storica e politica del dopoguerra, in nome della libertà e dell’esercizio democratico, sembrano essere lettera morta, mentre assistiamo nelle aule parlamentari ad episodi degni delle peggiori tifoserie da stadio di un calcio malato quale quello italiano si manifesta di continuo.
Il risultato, si potrebbe ipotizzare, è quello di difendere la democrazia, con il riflesso condizionato verso chiunque tenti di attentare ad essa? Basta uno sguardo per capire che così non è! E per una ragione precisa: il Parlamento ha abdicato al suo ruolo dal momento in cui ha dimenticato il dato fondamentale: la rappresentanza degli interessi nazionali e di quelli dei cittadini. E si è trasformato in una cassa di risonanza delle segreterie e delle piazze di volta in volta chiamate a manifestare. Un parlamentare, dice la Costituzione, nel momento in cui esercita il suo incarico, rappresenta il Paese pur con la sua connotazione politica. Di qui nasce la possibilità per le assemblee di lavorare nell’interesse del paese e di contenere e correggere spinte antisistema di qualsiasi tipo. Qualcuno, in Parlamento, agisce in questa veste? Affermarlo non espone solo al ridicolo, ma è una pura stupidaggine!
In sostanza per poter parlare di dittatura e di lotta contro di essa, occorrerebbe che nelle aule parlamentari ci si ricordasse di essere “rappresentanti” del popolo italiano e non capibastone di qualche rassemblement di tifosi di questo o di quello, magari etero diretti questa volta sì da capi o capetti della prima e dell’ultima ora. Ricordarsi di questo elementare principio sarebbe una buona cosa per tutti. Con il corollario di un altro concetto: decidere o cercare di farlo non vuol dire essere un dittatore, ma soltanto avere la coerenza di cercare di realizzare il proprio programma. Su questo terreno si dovrebbe giocare la partita per il bene del Paese, non su vecchi e nuovi rancori, pizzi e vecchi merletti!

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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::564::/cck::

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