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Affermare che la parola scelta questa settimana abbia bisogno di essere spiegata è forse presuntuoso, ma certamente non accenna a diminuire il clamore che essa genera comunque. E’ dunque utile qualche sommessa riflessione.
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Affermare che la parola scelta questa settimana abbia bisogno di essere spiegata è forse presuntuoso, ma certamente non accenna a diminuire il clamore che essa genera comunque. E’ dunque utile qualche sommessa riflessione.
Nel nostro paese si parla – purtroppo molto spesso si parla soltanto – di riforme dalla nascita della Repubblica in poi. Anno dopo anno, decennio dopo decennio, legislatura dopo legislatura abbiamo assistito alla proclamazione della necessità di avviare le riforme necessarie a rendere completa e stabile la struttura della democrazia e della società italiana, all’analisi delle possibili forme che esse potevano assumere, alla predisposizione di ponderosi testi per questa o quella e alla creazione di organismi bicamerali, pletorici e farraginosi, ma necessariamente rappresentativi di quelle che si dicono diverse sensibilità politiche. Basti ricordare la pagina lontana oltre sessant’anni del tentativo di riforma elettorale del 1953 (noto come legge truffa) e delle polemiche che ha generato e genera ancora nel ricordo per comprendere di cosa parliamo.
Dunque, riforma (e il suo plurale inflazionato) indica nel dizionario una “modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un’istituzione, un ordinamento. In particolare, il termine è stato applicato a indicare innovazioni o mutamenti profondi nella vita dello Stato o della Chiesa, dovuti (almeno per ciò che riguarda lo Stato) all’azione legittima e regolare dei poteri costituiti. Ma anche semplicemente formare di nuovo, dunque intervenire con modifiche su qualcosa che esiste nel tentativo, presumibilmente, di migliorarlo.
Poche parole, efficaci ancorché semplici nella loro essenziale formulazione. Ebbene, se ripercorriamo la storia nazionale ci troviamo dinanzi a una montagna di possibili riforme, di tentativi avviati, rallentati, congelati. Ad una immensa mole di lavori preparatori destinati all’inutilità che non sembrano neppure utili ad affrontare i nuovi impegni riformatori. In buona sostanza, un gigantesco monumento al vuoto pneumatico.
Intanto il paese è cresciuto, nonostante tutto, si è sviluppato, è divenuto maturo e sta ora affrontando una fase di pesante crisi che mette in difficoltà meccanismi politici e sociali che si ritenevano ormai acquisiti. Molte delle riforme avviate non hanno mai visto la luce o l’hanno vista soltanto in parte. Il risultato è la mancata soluzione di molti nodi strutturali che ancora oggi ci impediscono di fare un ulteriore passo in avanti verso uno stato moderno, efficiente, equilibrato.
L’elenco di riforme annunciate, avviate in tutto o in parte è pressoché sterminato e riguarda ogni aspetto della vita del paese. Dall’agricoltura, all’industria, dalle infrastrutture ai servizi, dallo stato civile al sistema giudiziario. Ancora le infrastrutture, cruciali per modernizzare lo stato, il sistema sanitario e via dicendo. Non esiste aspetto, angolo, particolarismo che non sia stato oggetto di riflessioni e di … tentativi di riforme.
Negare che la nostra convivenza civile non abbia potuto contare su alcune trasformazioni importanti, sarebbe ingeneroso, ma è altrettanto vero che da troppo tempo abbiamo assistito a un rimpallo continuo, ad una ricerca di interessi settoriali, ad uno spezzettamento del tessuto e dell’intento riformatore che ha danneggiato e ritardato il cammino.
La riprova di questo stato di cose si riscontra nel cruciale ambito delle riforme strutturali e costituzionali dove la politica sembra aver smarrito il senso dello stato e delle stesse istituzioni dimentica di cosa voglia dire, nel disegno della Costituzione, la rappresentanza degli interessi dei cittadini.
Persino il discorso istituzionale per eccellenza, quello della revisione, dell’ammodernamento della Carta fondamentale, a quasi settant’anni dalla sua formulazione, risente di questa incapacità, di questa miopia deleteria. Da un lato si vorrebbe mettere le mani a tutto e subito, dall’altro invece si continua a dire con poca intelligenza prospettica, che non va toccata e va lasciata come è, pur consapevoli di quanto in essa abbia fatto come è logico e naturale, il suo tempo.
E, guarda caso, le maggiori frizioni riguardano proprio gli ambiti sociali, economici e politico-elettorali in senso stretto che hanno risentito nel corso dei decenni delle trasformazioni profonde del tessuto sociale e che oggi, nella fase acuta della crisi internazionale, reclamerebbero azioni coerenti, precise, essenziali delle quali tutti parlano e pretendono l’attuazione, ma che allo stato pratico continuano ad essere ostaggio di egoismi, ritardi concettuali e di elaborazione.
Dunque, sarebbe ora, non tanto di parlare e dibattere di riforme, ma più semplicemente … di farle. Certo qualcuno rimarrà con la bocca amara, urlerà al tradimento dei principi, ma il peggior tradimento è l’immobilismo al quale ci condannano ed è questa la catena da spezzare!
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::574::/cck::