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Nel 1959, l’invasione del Tibet da parte della Cina comunista con la conseguente annessione, al di là di ogni legittimità internazionale, condannava questa nazione al periodo più duro di tutta la sua storia millenaria.
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Nel 1959, l’invasione del Tibet da parte della Cina comunista con la conseguente annessione, al di là di ogni legittimità internazionale, condannava questa nazione al periodo più duro di tutta la sua storia millenaria.
Milioni di tibetani pur di non vivere sotto la dittatura di Pechino preferirono scappare dalla loro terra ed andare incontro molto spesso a morte certa. Fu un epopea di dolore e di privazioni, distruzioni di monasteri e opere d’arte di incalcolabile valore artistico oltre che spirituale come forse poche ci sono state nello scorso secolo.
Sono passati 56 anni dai quei giorni e, nonostante rivolte, morti, fame e migliaia di prigionieri, la situazione, almeno superficialmente, si è normalizzata, facendo però di questa terra una immensa discarica di scorie velenose ed una sterminata miniera di materie prime necessarie allo sviluppo industriale della Cina: dall’uranio al nichel ed altri minerali rari, procedendo a ritmi veloci alla distruzione dell’habitat naturale del Tibet sia per le politiche cinesi e sia per il rapido peggioramento climatico.
Il cosiddetto “terzo Polo himalayano”, una regione di ghiaccio essenziale per l’umanità, secondo gli ultimi dati più di un quarto dei suoi ghiacciai si stanno sciogliendo a causa di un processo “accelerato dalla crescente presenza di polvere di carbone che viene risucchiata nell’atmosfera, e che, con le nevi monsoniche, è depositata sulle cime dell’Himalaya, dove rimane“, denuncia David Brearshears, alpinista e regista, che ha redatto un vasto materiale da presentare al prossimo summit climatico delle Nazioni Unite.
La causa principale, secondo tutti gli studi scientifici, dipende dalla polvere di carbone che proviene dalla Cina e di recente anche dall’India.
Per Pechino il problema è ormai annoso e la soluzione, invece di una politica contro il degrado ambientale e la messa in regola di migliaia di industrie, passa invece per un ulteriore stravolgimento della vita dei nomadi tibetani sull’altipiano.
Con metodi certo non democratici il governo cinese sta procedendo a tappe forzate a rendere sedentari i tibetani, dediti alla pastorizia e nomadi da sempre, per impedire che i loro greggi impoveriscano le grandi praterie messe alla prova dall’inquinamento per non attivare una catena alimentare pericolosa.
Insomma, se c’è inquinamento la colpa è dei nomadi, dei quali 300 mila si sono dovuti trasferire nella desolazione dei villaggi di cemento della campagna per i Nuovi Villaggi Socialisti, insomma, una ulteriore distruzioni sociale e culturale per una civiltà millenaria irripetibile.
Secondo un sondaggio della statunitense Pew, il 47% della popolazione cinese considera la questione ambientale, dopo anni di silenzio, “un problema molto grave” ed hanno ragione.
Infatti, gli ultimi dati forniti dal Gruppo Intergovernativo sul cambiamento climatico confermano il pericolo; nel l’ultimo studio si denuncia che di qui al 2100, a causa di un probabile aumento delle temperature globali di almeno 1.8 gradi, i ghiacciai himalayani si ridurranno del 45% e addirittura del 68% se il caldo dovesse aumentare di 3,7 gradi.
Scenari futuribili terribili, ma non certo per chi vive alle falde della catena dell’Himalaya che già vive queste previsioni.
È stato proprio lo sciogliersi veloce dei ghiacci ad aver causato, lo scorso aprile, il distacco di un lastrone di ghiaccio nei pressi dell’Everest, causando la morte di 16 sherpa in spedizione.
Come se tutto questo non bastasse, con il riscaldamento del pianeta si stanno seccando le foci dei fiumi che dissetano l’intera Asia, l’area di Sanjiangyuan famosa un tempo per i suoi fiumi, mostra oggi una serie di laghi essiccati, preoccupanti inizi di desertificazione delle praterie ed un calo di alcune specie animale protette che non trovano più il loro habitat: una per tutte, l’antilope tibetana, che è passata da 100.000 a 30.000 esemplare in soli quindici anni.
Ciò che tra qualche generazione avverrà per il Tibet, riguarda però anche tutti noi, condannati, se non reagiamo subito, a vivere una vita prossima a finire, almeno come l’abbiamo conosciuta sino ad ora.
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::autore_::di Michele Sermone::/autore_:: ::cck::580::/cck::