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L’emergenza terrorismo, dopo l’ennesimo attacco islamico a Parigi (ultimo di una lunga scia che porta in Africa, in Medio Oriente, in Asia) e l’allarme che percorre tutte le nazioni europee sta mettendo in ombra…
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L’emergenza terrorismo, dopo l’ennesimo attacco islamico a Parigi (ultimo di una lunga scia che porta in Africa, in Medio Oriente, in Asia) e l’allarme che percorre tutte le nazioni europee sta mettendo in ombra, forse in modo momentaneo, forse no, molti dei nostri problemi politici, superati dalle circostanze che mettono a rischio la nostra pacifica convivenza.
Non è e non sarà una questione temporalmente delineata, ma una condizione del nostro vivere al quale occorre guardare con molta chiarezza e sensibilità. Molti dei problemi del Paese, quelli da sempre affrontati e da sempre irrisolti sono lì, non cambiano, dunque occorre affrontarli e risolverli anche nella nuova condizione, ma diviene necessario modificare l’approccio all’insieme delle emergenze, inserendole nel tessuto della nuova narrazione che il rischio estremismo porta con sé.
Chi in questi giorni va al supermercato, entra in un bar, va al cinema, a teatro, ad ascoltare un concerto, lo fa con una sensazione diversa dal solito, con una percezione mutata della propria sicurezza. Non vi è solo il pirata della strada, il borseggiatore, il ladro in casa, il provocatore quotidiano a buon mercato che rendono problematico il nostro vivere insieme ai disservizi cronici, alle carenze inaccettabili, alle pretese spesso assurde di chi amministra. Vi è qualcosa di più, di impalpabile ma proprio per questo di immanente nel suo significato di incertezza, di pericolo, di rischio ovunque: è il segno violento dell’attacco ideologico, intollerante e di cieca e settaria violenza alla nostra convivenza certo perfettibile, ma almeno legata ad alcuni valori che sono quelli di libertà, di uguaglianza, di fraternità umana. E’ a questo pericolo mentale prima ancora che pratico che occorre reagire sia per isolare i violenti, sia per sostenere quanti nel mondo musulmano chiedono per sé rispetto ma accettano di rispettare a loro volta il paese che li ospita e che spesso diviene anche il loro.
Gli antichi romani – ai quali dobbiamo gran parte dell’architettura sociale e civile che ci fa oggi europei – affermavano semplicemente “si vis pacem, para bellum”, ossia «se vuoi la pace, prepara la guerra»). Una sentenza latina anonima in questa forma, ma presente, in modo poco diverso nella formulazione o nella sostanza, in vari autori dell’antichità. Una citazione soprattutto per affermare che uno dei mezzi più efficaci per assicurare la pace è quello di essere armati e in grado di difendersi, in modo da scoraggiare eventuali propositi aggressivi degli avversari.
L’uso più antico è contenuto probabilmente in un passo delle Leggi di Platone. La formulazione in uso ancora oggi è invece ricavata dalla frase: Ergo qui desiderat pacem, praeparet bellum, letteralmente “Dunque, chi aspira alla pace, prepari la guerra”. È anche una delle frasi memorabili contenute nel prologo del libro III dell’Epitoma rei militaris di Vegezio opera composta alla fine del IV secolo. Il concetto è anche stato espresso anche da Cornelio Nepote (in Epaminonda, 5) con la locuzione “paritur pax bello”, vale a dire “la pace si ottiene con la guerra”, e soprattutto da Cicerone con la celebre frase “si pace frui volumus, bellum gerendum est” si tratta dalla Settima filippica che letteralmente significa “se vogliamo godere della pace, bisogna fare la guerra”, che fu una delle frasi che gli costarono la vita nel conflitto con Marco Antonio.
Una digressione non erudita ma semplicemente logica per capire che cosa fare. Ad altri spettano le decisioni polittico-militari, le scelte da assumere per sconfiggere definitivamente quello che si è eletto a nostro nemico. Nella nostra quotidianità invece per ognuno vi è il compito di essere preparati (sempre i latini dicevano “estote parati”) al confronto. Non certo bellico ma culturale e sociale. E’ qui il nostro “para bellum”: dobbiamo difendere con le idee, con l’esempio, con la pratica i valori e i principi in cui crediamo, comunque la pensiamo politicamente, religiosamente, culturalmente, ma senza voler imporre ad alcuno il nostro modo di essere. E tuttavia dobbiamo al tempo stesso far rispettare il nostro sistema di regole e comportamenti, rispettando lo stato che è fatto di noi stessi, agendo con onestà, senza furbizie nei rapporti umani, sociali, economici. Rispettando e facendo rispettare la legge che sorregge la nostra convivenza.
La stella che deve guidarci è quella che ci fa capire a livello epidermico, dove è la differenza con l’ottusa volontà di opprimerci, terrorizzarci, indebolirci. E’ questo il nemico, il totem sul quale appuntare la nostra reazione. Si parla in questi giorni di possibili compressioni della nostra libertà, di maggiori controlli. Un costo necessario (e speriamo non per sempre), al quale le persone oneste sanno di potersi abituare, un costo che però permette di far emergere chi onesto non è e perseguirlo, togliendogli l’acqua torbida nella quale si dissimula. E’ possibile pensare che in una città europea, in un quartiere di essa, sia possibile arrivare, entrare, uscire, come anche dalle frontiere dell’Unione con le auto cariche di esplosivo e armi da guerra? E’ possibile non accorgersi che in certi luoghi di culto si predica l’odio e il fanatismo indisturbati giocando su povertà, isolamento, solitudine? E’ possibile non accorgersi di quanti – pochi al raffronto – tra le migliaia di poveri e disperati che giungono sulle nostre coste in cerca di salvezza, sono qui per predicare e organizzare odio?.
La risposta è semplice: no! Basta poco per accorgersi di tutto questo, basta volerlo qui da noi e in tutta l’Unione europea. E se il primo aspetto riguarda i poteri pubblici, le forze dell’ordine, la necessità di identificare tutti coloro che entrano nel nostro paese; il secondo riguarda chi sta intorno a queste realtà, musulmani moderati in primis! Quello al quale dobbiamo reagire non è predicazione oltranzista, ma semplice criminalità come quella di chi spaccia droga o commercia in esseri umani, aspetti che spesso coincidono! E’ questo il bellum che ci riguarda tutti e al quale non dobbiamo sottrarci ma essere “parati”. E’ un dovere civile che emerge con forza dal periodo storico e da quanto avviene intorno a noi. Un dovere civile compiendo il quale possiamo persino migliorare il clima sociale e di convivenza tra noi italiani, con un po’ più di onestà, e un po’ meno di furbizia italica. E’ in questo recupero di civiltà l’arma più potente per opporci alla barbarie, sollevando lo sguardo dal nostro ombelico e guardandoci intorno. Il mondo è cambiato e dobbiamo accompagnarne o correggerne il passo, ma adeguandoci ad esso. Certe espressioni che ricordano lo stato pontificio o gli staterelli preunitari o mitiche e irreali padanie, debbono farci sorridere. Il paese nel quale viviamo è l’Italia del ventunesimo secolo che fa parte dell’Europa del ventunesimo secolo: prima ce ne rendiamo conto e ne diveniamo partecipi e meglio è! Altrimenti lo scontro di civiltà lo perdiamo in partenza!
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::autore_::di Roberto Mostarda::/autore_:: ::cck::914::/cck::