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Il fragile compromesso raggiunto tra il parlamento di Tobruk e quello di Tripoli, dalla caduta di Gheddafi nel 2011 in aperto contrasto per la leadership della Libia, rischia di naufragare a causa della costante ascesa di popolarità dello stato islamico.
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Il fragile compromesso raggiunto tra il parlamento di Tobruk e quello di Tripoli, dalla caduta di Gheddafi nel 2011 in aperto contrasto per la leadership della Libia, rischia di naufragare a causa della costante ascesa di popolarità dello stato islamico.
Le pressioni della comunità internazionale, culminate con il vertice tenutosi il 13 dicembre a Roma che ha visto la partecipazione di 17 paesi e 4 organizzazioni internazionali, sembrano aver partorito un accordo la cui valenza sul campo rimane tutta da dimostrare.
Sulla carta il piano, messo a punto grazie alla mediazione dell’inviato delle Nazioni Unite Martin Cobler, prevede la creazione entro 40 giorni di un comitato di 10 persone che avrà il compito di nominare i vertici istituzionali del paese. Un traguardo ambizioso che dovrebbe porre le basi per una tornata elettiva generale da tenersi entro due anni. Nelle intenzioni dei promotori del compromesso, a cominciare dal nostro governo particolarmente interessato alla situazione libica, c’è la necessità di calmierare un paese che rischia di diventare il prossimo palcoscenico per l’affermazione dello stato islamico.
Già ora gli uomini del califfo controllano la zona di Sirte nonché altre importanti enclave del territorio, come il sito archeologico di Sabratha, caduto nelle mani jihadiste due settimane fa. Secondo i principali esperti geopolitici della realtà libica, la continua ascesa delle formazioni aderenti allo stato islamico, sarebbe dovuta all’avanzata delle truppe lealiste in Siria ed in Iraq. I combattenti islamici starebbero così riposizionandosi nel paese nordafricano, potendo contare sull’appoggio di alcune tribù che finora non hanno trovato rappresentanza nelle due entità statali in cui è diviso il paese. L’afflusso dei combattenti starebbe avvenendo attraverso le rotte che attraversano i deserti meridionali, potendo contare sulla fedeltà delle tribù beduine che controllano la regione.
Per questo l’accordo disegnato a Roma rischia di rimanere un ambizioso progetto politico privo di un’effettiva praticabilità sul campo. Più sensato sarebbe stato coinvolgere nella conferenza di pace capitolina le tribù che controllano effettivamente il territorio e le sue inestimabili risorse. La lezione di Gheddafi, l’unico leader riuscito a controllare la Libia per oltre 40 anni, sembra non aver trovato ascolto nei leader confluiti a Roma.
Basare la pacificazione del paese sulla buona volontà dei due parlamenti di Tripoli e di Tobruk, peraltro spinti al dialogo dai loro sponsor internazionali, Turchia e Qatar da una parte e comunità internazionale dall’altra, rischia di escludere una fetta fondamentale della popolazione, diventando così un esercizio esclusivamente retorico. Il puzzle libico per essere ricomposto ha bisogno della partecipazione di tutti gli attori sul campo, una condizione che solo una leadership forte può garantire e nessuno al momento sembra poter ottemperare a questa imprescindibile necessità.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::959::/cck::