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Sempre più spesso si parla di donare i propri organi una volta che la nostra vita sia giunta al termine.
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Sempre più spesso si parla di donare i propri organi una volta che la nostra vita sia giunta al termine. Secondo la tesi ricorrente, grazie a questa ultima generosità, possiamo continuare a vivere in altre persone che con il nostro gesto possono avere una vita meno sfortunata.
Nascono così le associazioni ed enti a cui poterci rivolgere nel caso di questa scelta, senza citare i medici e i giornali che sollecitano questo tipo di donazione anche attraverso una tessera dove la persona può dare preventivamente il suo consenso in vita alla donazione senza accentuare il dolore di chi rimane che, oltre alla perdita del loro caro, devono affrontare una scelta morale non indifferente.
Dai dati rilevati in molte nazioni sviluppate, grazie anche ad un battage comunicativo capillare, la donazione dei propri organi è entrata nella nostra quotidianità, un po’ come donare il sangue nei centri ospedalieri, solo che non è proprio così.
Intanto quando doniamo il sangue siamo ancora in vita e il nostro prezioso liquido in pochissimo tempo si riforma, quando invece si donano gli organi il corpo deve essere ancora in vita per l’espianto altrimenti le parti si deteriorano subito rendendoli inutilizzabili.
Non è una cosa da poco come è facile immaginare.
Si uccide, è l’accusa dei contrari all’espianto, per donare la vita ad altri, commettendo un vero e proprio omicidio.
La risposta a questa dura accusa è che il paziente a cui si possono togliere i suoi organi è molto spesso in vita solo grazie ad una macchina, non vive cioè di vita propria.
Ciò che conta – dicono i sanitari – è la morte cerebrale che una volta accertata, sia per la medicina e sia la legge, la persona è a tutti gli effetti deceduta e si può avviare l’iter della donazione per esplicito consenso del paziente o, in mancanza di questo, della propria famiglia.
Purtroppo, la morte è e rimane a tutt’oggi un mistero.
Non sappiamo cosa succede quando vengono a mancare alcune situazioni oggettive per definire una persona trapassata e né tanto meno parlare del post mortem da un punto di vista religioso che esula dalle nostre competenze, ma solo dal punto biologico dove scopriamo che nessuno, nonostante tantissimi studi e ricerche, è in grado di sapere quando effettivamente si muore, neanche quando comincia il rigor mortis.
Tutto questo preambolo per raccontare una storia che dovrebbe far riflettere molto i fautori dell’espianto e coloro che accettano questa pratica come togliersi un dente o donare il sangue.
Una sera, all’inizio dello scorso anno, presso l’ospedale Tomball di Houston, in Texas, il personale sanitario era stato allertato per un espianto di organi per una donazione.
La persona in questione era un ragazzo di 27 anni, George Pickering, colpito da un ictus fulminate e dichiarato, dopo tutti gli accertamenti del caso, deceduto per morte celebrale. Come capita in questi casi i medici hanno chiesto immediatamente alla famiglia di “staccare la spina” dai macchinari dato che ormai non c’era più nulla da fare e l’unica cosa che ancora il povero George poteva fare attraverso i suoi genitori era appunto donare i propri organi.
Ottenuto il consenso dei familiari e avviate tutte le procedure del caso si poteva cominciare con l’espianto. Mentre i vari membri della famiglia si erano rassegnati all’inevitabile, solo il padre del ragazzo non si capacitava all’idea di perdere un figlio così giovane. L’uomo era convinto che sarebbero bastate ancora tre o quattro ore per avere la certezza della morte, ma tutti nell’ospedale dagli infermieri ai dottori si muovevano troppo in fretta e qualcosa nella sua mente non quadrava.
Dato che nessuno dava ascolto alle sue perplessità, ha deciso un gesto estremo; ha impugnato una pistola e ha minacciato di sparare ai medici che stavano cominciando a staccare la spina per le fasi dell’espianto.
Momenti di tensione, ma il padre non cedeva davanti alle richieste dei medici, della sua stessa famiglia e anche della polizia subito accorsa per arrestare l’uomo pensando forse ad un terrorista.
Dopo tre ore di questa follia, per quattro volte, dietro sollecitazione del padre ormai disperato, il figlio, come in un miracolo, riusciva a stringergli la mano.
George non era morto e la sua “fine” poteva essere rinviata a un lontano futuro.
L’uomo, una volta salvato il figlio ha riconosciuto di essere stato aggressivo e anche di aver bevuto un po’ troppo per darsi coraggio, ma quel gesto andava fatto, ha voluto ribadire ai poliziotti e al magistrato.
Mentre scriviamo queste righe, dopo appena un anno il ragazzo ha recuperato pienamente la salute e il padre,arrestato per aggressione armata, è stato rilasciato ed è potuto tornare in famiglia.
Il ragazzo in una intervista ha detto tra l’altro: “E’ solo grazie a questo gesto di mio padre che io sono ancora qui in vita. È stato amore, solo amore” – ed ha aggiunto – “E’ dovere di un genitore proteggere i propri figli, e questo è quello che ha fatto mio padre. L’unica cosa che conta è che sono vivo e vegeto, che mio padre è tornato a casa e che siamo di nuovo insieme“.
Parole che non hanno certo bisogno di commenti, ma che aprono uno spiraglio per la scienza nel definire che cosa è veramente il miracolo della vita.
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::autore_::di Antonello Cannarozzo::/autore_:: ::cck::1000::/cck::