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Morto un Papa se ne fa un altro. Il noto proverbio romano potrebbe attagliarsi perfettamente al terremoto che il mondo dei narcos messicani sta vivendo dopo la cattura del capo del cartello di Sinaloa: Joaquin Guzman Loera detto “El Chapo”.
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Morto un Papa se ne fa un altro. Il noto proverbio romano potrebbe attagliarsi perfettamente al terremoto che il mondo dei narcos messicani sta vivendo dopo la cattura del capo del cartello di Sinaloa: Joaquin Guzman Loera detto “El Chapo”.
Il più importante boss della droga del paese e forse del mondo intero, è stato arrestato in un appartamento di Los Mochis, un piccolo centro della zona nord-occidentale del Messico, da sempre feudo incontrastato delle bande criminali più pericolose del centro America.
Al di là della cronaca del blitz, condotto dalle forze speciali della marina messicana, le più impermeabili alla rete di corruzione che da sempre condiziona le più alte istituzioni del paese, la cattura del Chapo nella sua terra d’origine, lascia perplessi i più autorevoli commentatori di questioni legate al narcotraffico. Secondo gli esperti infatti, l’arresto di un boss della portata del “Chapo”, in una zona controllata maniacalmente dagli uomini del cartello di Sinaloa, significa che qualcuno aveva deciso che la stagione al comando di Joaquin Guzman era finita ed era arrivato il tempo di nuovi leader, meno esposti alla pressione del governo messicano e degli agenti della DEA americana.
In quest’ottica potrebbe avere avuto un ruolo fondamentale nella caccia a Guzman il suo storico socio in affari, Ismael Zambada detto “El Mayo”. Diverso, ma complementare a Guzman, “El Mayo” è da sempre l’uomo dei contatti e delle trattative, fondamentali anche più della forza bruta, in un contesto criminale come quello messicano, fatto di corruzione e coperture politiche.
Inoltre non è sfuggito ai più arguti commentatori il fatto che il figlio del “Mayo”, Jesus Vicente Zambada-Niebla, sia stato catturato nel 2009 dagli agenti americani e poi rimesso prontamente il libertà, nel nome di una collaborazione presunta, ma soprattutto di un accordo i cui dettagli non sono mai stati resi noti. Probabilmente gli uomini della DEA si sono serviti proprio della collaborazione della famiglia Zambada per arrivare al “Chapo”, considerato bruciato da una parte del suo stesso clan, a causa dell’enorme sovraesposizione mediatica seguita alla sua seconda fuga dalle carceri messicane avvenuta nel luglio scorso.
Negli ultimi sei mesi infatti le autorità statunitensi avevano esercitato enormi pressioni sullo stesso presidente messicano Enrique Pena Nieto, affinché venisse ricondotto, in un modo o nell’altro, nelle patrie galere Joaquin Guzman, diventato proprio a causa della sua audacia un mito per buona parte della popolazione del paese.
L’arresto del “Chapo” consente dunque di togliere dall’enorme imbarazzo, soprattutto agli occhi del potente vicino, le autorità messicane, mentre il cartello di Sinaloa, con la nuova leadership, potrebbe ricominciare a svolgere i suoi lucrosi traffici senza l’assedio costante delle forze dell’ordine. Un compromesso che spiegherebbe le vere ragioni della cattura del “Chapo” nel suo territorio.
A suffragare questa versione ci sono inoltre le parole del procuratore generale messicano Arely Gomez, che ha parlato dell’incontro tra l’attore americano Sean Penn ed il famoso narcotrafficante, come l’elemento decisivo che ha consentito agli investigatori d’individuare il nascondiglio del “Chapo”. Una narrazione della vicenda che fa comodo a tutti, tranne chiaramente che a Joaquin Guzman Loera, che dalla sua cella nella prigione El Altipiano starà arrovellandosi su come vendicarsi di chi l’ha tradito.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::1009::/cck::