Economia

Più Europa e meno Euro

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Banconote Euro, foto di cosmix CC0 Public Domain
Nel tepore di un inverno sui generis, lontani da calde primavere elettorali, le tematiche europee si apprestano ad essere sviscerate e messe in luce dalle analisi sui dati di disoccupazione e Pil appena pubblicati ufficialmente dai vari istituti di statistica. La certificazione dell’impasse del progetto europeo arriva da tutti i fronti con, al centro, i tentativi di alcuni paesi di forzare l’accordo di Shengen e con la frontiera sud alle prese della richiesta turca di Erdogan di aprire il forziere dell’euro a suon di numero di ingressi.

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Nel tepore di un inverno sui generis, lontani da calde primavere elettorali, le tematiche europee si apprestano ad essere sviscerate e messe in luce dalle analisi sui dati di disoccupazione e Pil appena pubblicati ufficialmente dai vari istituti di statistica.
La certificazione dell’impasse del progetto europeo arriva da tutti i fronti con, al centro, i tentativi di alcuni paesi di forzare l’accordo di Shengen e con la frontiera sud alle prese della richiesta turca di Erdogan di aprire il forziere dell’euro a suon di numero di ingressi.
A nord c’è la questione Brexit, con il premier britannico Cameron a dettare le condizioni, che sanciscono la discesa dell’Europa nel punto più basso dalla ideazione e creazione del progetto dell’unione, senza che le politiche e i programmi diano adito a speranze positive.
L’architettura europea, iniziata con l’apertura di un mercato economico condiviso, scevro da barriere fiscali e doganali, è proseguita con l’istituzione della moneta unica e la progressiva costruzione di norme e regolamenti incentrati sulla visione di un modello di sviluppo e sostenibilità che si è scagliato, alla resa dei conti, con una serie di errori programmatici ed attuativi sulla governance e ripartizione dei poteri all’interno della comunità.
L’adozione dei parametri economici di Maastricht e i successivi trattati, con l’adozione del fiscal compact a suggellare l’indirizzo di politica monetaria e fiscale, ha creato una serie di limitazioni e distorsioni che negli anni stanno mostrando tutti gli effetti dirompenti.
Italia, Germania e Francia, nei quattro decenni dal 1950 al 1991, con tassi di crescita del Pil pari rispettivamente a 4,36%, 4,05% e 3,86% risultavano nello sviluppo i primi tre paesi Occidentali, precedendo anche gli Usa e il Regno Unito.
Nel decennio 2000-2010 negli stati con minore sviluppo, l’Italia figura come terza peggiore economia del mondo, la Germania come decima peggiore economia e la Francia come quattordicesima peggiore.
Gli ultimi anni di recessione, importata dagli Usa, hanno aggravato ancor di più i dati, con l’esplosione della disoccupazione e l’affannosa ricerca di manovre di bilancio per limitare gli effetti distorsivi di un’unione, resa tale dal conio dell’euro come valore comune.
Il modello neo liberista tedesco, adottato virtualmente in Europa, si esplica in una visione di controllo ferreo dei parametri di bilancio, con il rispetto dell’indebitamento pubblico e di deficit, e la ricerca continua della sostenibilità dello sviluppo attraverso la compressione delle spinte inflazionistiche, da attuare con il progressivo demansionamento e flessibilità del lavoro.
La differenza strutturale dei vari paesi che formano l’unione ha provocato, in mancanza di aggiustamenti del cambio, un progressivo impoverimento degli stati del sud Europa, divenuti sempre più importatori di beni e manufatti del nord, favoriti dalla loro forza produttiva, costringendo i governi, ormai privati delle manovre di politiche economiche dai vincoli di bilancio, ad influire sul taglio del welfare e sulla tassazione per tenere in equilibrio i conti pubblici, con appelli più o meno velati ad una maggiore flessibilità per avere un po’ di respiro sul fronte interno.
La demonizzazione del debito pubblico, visto come forma horribilis nella macchina virtuosa della gestione dei paesi, ha progressivamente tolto ai paesi l’unica leva per agire e attuare politiche distributive e sociali.
L’indebitamento USA passò dal 1939 al 1945 da poco più del 40% ad oltre il 100% con l’assorbimento di 15 milioni di disoccupati, così come la leva del QE (allentamento monetario) è stata riproposta dopo la crisi del 2008 riportando l’America in piena occupazione.
La politica di austerità ha funzionato in Germania, con la svalutazione dei salari e la competitività della macchina tedesca che ha sbaragliato la concorrenza soprattutto all’interno dell’unione europea, grazie ai cambi fissi garantiti dalla moneta unica.
Nel resto dell’unione i risultati sono a dir poco catastrofici, con Italia e Francia incamminate verso il destino già toccato alla Grecia. In un mondo costituito di poteri economici ed anche politici, l’area europea rappresenta pur sempre il più grande consumatore sulla terra, e la via intrapresa dalla burocrazia europea diventa sempre più indigesta per gli USA e la Cina, con il Fondo Monetario che inizia a inviare segnali sempre più preoccupati.
Del resto è impossibile che in un mondo fatto di scambi di beni e servizi ci sia un’area esclusiva che voglia essere solo esportatrice e in surplus di bilancio, cosa mal vista da tutto il resto del mondo che lavora e produce.
Se l’inversione della piega intrapresa sarà a carico dei paesi e dei governi in modo democratico lo vedremo nel prossimo biennio: falliti i vari tentativi della Bce di risollevare un po’ il clima di depressione, ora si cercherà di evitare i nefasti ricorsi storici.

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::autore_::di Gianluca Di Russo::/autore_:: ::cck::1090::/cck::

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