Domenica 17 aprile i cittadini italiani saranno chiamati al voto sul cosiddetto referendum contro le trivelle. Dovranno decidere se abrogare la legge che consente alle multinazionali del greggio di estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia dalle coste del nostro Paese senza limiti di tempo.
Il quesito referendario chiederà ai votanti se favorevoli o meno, quando scadranno le concessioni, allo stop dei giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se ancora presente gas o petrolio.
«Le acque costituiscono una risorsa che va tutelata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà; qualsiasi loro uso è effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale» recita l’articolo 38 del Decreto-Legge Sblocca Italia riguardo il tema più dibattuto negli ultimi mesi.
Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata, occorre che voti almeno il 50% più uno degli aventi diritto e che la maggioranza si esprima con un parere positivo («sì»).
Si voterà in tutta Italia, e non soltanto nelle regioni che hanno promosso il referendum per chiedere la cancellazione della legge. Hanno diritto di voto anche i cittadini italiani residenti all’estero.
Il quesito referendario chiederà ai votanti se favorevoli o meno allo stop dei giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane quando scadranno le concessioni, anche se ancora presente gas o petrolio. La domanda riguarda solo la durata delle trivellazioni in atto entro le 12 miglia dalla costa (sono escluse quindi le attività petrolifere sulla terraferma e quelle in mare che si trovano ad una distanza superiore ai 22 chilometri dal litorale). Secondo i calcoli di Legambiente elaborati su dati del ministero dello Sviluppo economico, le piattaforme soggette a referendum coprono meno dell’1% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% di quello di gas.
Per comprendere i motivi del referendum è necessario fare un passo indietro. Bisogna tornare al settembre del 2015 quando Possibile, il movimento fondato dal deputato Giuseppe Civati, promosse otto referendum ma non riuscì a raccogliere le 500.000 firme necessarie per richiederne uno popolare. Poche settimane dopo i consigli regionali di Abruzzo (poi ritiratosi dalla lista dei promotori), Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise hanno promosso sei quesiti referendari sulla ricerca e l’estrazione degli idrocarburi in Italia. I promotori sono preoccupati per le conseguenze ambientali e per i contraccolpi sul turismo – derivanti da un maggiore sfruttamento degli idrocarburi – e contestano al governo di aver legiferato su una materia che è di competenza delle regioni in base all’articolo 117 della costituzione, modificato dalla riforma costituzionale del 2001. Oggi il referendum è appoggiato da numerosi movimenti e associazioni ambientaliste tra cui il coordinamento No Triv.
La posta in gioco è alta: il futuro di parte delle piattaforme nei mari nostrani è nelle mani dei cittadini italiani.
La questione è in realtà più complessa di quanto si immagini. In caso di vittoria del «sì», circa 7000 dipendenti perderebbero il posto di lavoro. La chiusura degli impianti non scongiurerebbe comunque la possibilità di rischi ambientali poiché se un incidente avvenisse in un impianto collocato oltre le 12 miglia stabilite dalla legge, la gravità e le ripercussioni derivanti da un episodio di tale entità rimarrebbero comunque invariate. (nonostante la maggiore lontanza dalle coste). Dismettere gli impianti prima del tempo comporterebbe inoltre un costo cospicuo per le spese di ammortamento a causa del disuso degli impianti, progettati per una vita operativa. A preoccupare i movimenti ambientalisti sono anche le operazioni di routine che provocano un inquinamento dei fondali marini in cui la densità media del catrame depositato in mare aperto raggiunge 38 milligrammi per metro quadrato. I dati, forniti da Greenpeace e provenienti dal ministero dell’Ambiente, si riferiscono a monitoraggi effettuati da Ispra, un istituto di ricerca pubblico sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Ambiente, su committenza di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine. Al tempo stesso però c’è chi assicura che l’estrazione di gas avvenga in sicurezza: l’Ispra stessa, le Capitanerie di porto, le Usl e le Asl nonché l’Istituto superiore di Sanità controllano costantemente la situazione.
Cosa ne pensa il governo del referendum sulla questione trivelle? Discordi i pareri dei gruppi parlamentari. L’astensione al voto promossa dai due vice-segretari Pd, Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, porterebbe inevitabilmente al fallimento del referendum a causa del mancato raggiungimento del quorum. Non è mancata la replica di Grillo che dal suo blog dichiara: «Il 17 aprile votiamo sì. Il Partito democratico ha ufficialmente scelto di fare campagna per l’astensione. I rappresentanti piddini inviteranno i cittadini a restare a casa per non esercitare il diritto-dovere sancito dalla Costituzione. È uno scandalo sconsigliare la partecipazione. È un gesto vigliacco». La rivendicazione alla scelta non trova d’accordo neanche il deputato del Pd, Gianni Cuperlo: «Penso che sia un diritto e un dovere andare a votare. Se siamo arrivati al referendum ci sono ragioni e responsabilità che riguardano anche il governo». Roberto Speranza, esponente della minoranza del Partito Democratico, ha invitato il partito a «cambiare posizione sulla vicenda trivelle» perché «è inaccettabile immaginare un grande partito, il più grande del Paese, che invita i cittadini all’astensione». Quanto al presidente della Puglia, Michele Emiliano: «Mi auguro che non avvenga un ordine di astensione o sarò costretto a non rispettarlo. Io andrò a votare e voterò sì».
Apertamente contrario al referendum è il comitato Ottimisti e razionali presieduto da Gianfranco Borghini, ex deputato PDS, e composto da rappresentanti delle imprese e sostenitori delle fonti fossili (tra i quali anche l’ex ambientalista, poi presidente di Enel e ora di Assoelettrica, Chicco Testa).
Da ricordare anche la dichiarazione del ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti durante l’incontro “Cop 21, la sfida che non si può perdere” organizzato dal presidente della Camera Boldrini il 12 novembre 2015. Il ministro difese il piano di trivellazioni, giustificato dal fatto che “avremo bisogno dei combustibili fossili ancora per molto tempo”, e che quindi è meglio estrarli nel nostro territorio piuttosto che importarli dall’estero.
Non sono mancate in questi giorni le manifestazioni: a partire da Roma dove in piazza del Pantheon è stato organizzato un flash mob da parte del Comitato nazionale “Vota SÌ per fermare le trivelle”, a un team di 10 climber di Greenpeace entrato in azione sulla “Montagna Spaccata” nei pressi di Gaeta, per richiamare l’attenzione sulla questione ambientale derivante dall’estrazione dei combustibili . Gli “oil men”, della stessa organizzazione ambientalista, con volti sporchi di una sostanza oleosa richiamante il petrolio, hanno lanciato un appello sul lungomare di Bari al grido di “U mare non s’attocche!”.
di Giulia Iani