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La grande depressione degli anni ‘30, sfociata con la seconda guerra mondiale, fu il monito per stabilire regole condivise per gli scambi commerciali e per la convivenza dei popoli.
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La grande depressione degli anni ‘30, sfociata con la seconda guerra mondiale, fu il monito per stabilire regole condivise per gli scambi commerciali e per la convivenza dei popoli.
Con gli accordi di Bretton Woods del 1944, molti paesi alleati delle Nazioni Unite stabilirono le linee di funzionamento del sistema monetario internazionale.
Il sistema era basato sul dollaro come moneta di riferimento e tutti i principali paesi industrializzati con economie di mercato avevano il compito di mantenere una stabilità del cambio rispetto alla moneta statunitense, che garantiva la conversione in oro a fronte dell’eventuale scarsità.
Venne istituito il Fondo Monetario Internazionale che doveva assolvere alla funzione di controllo verso i paesi che presentavano squilibri commerciali, in modo di intervenire attraverso prestiti ed autorizzazioni ad eventuali svalutazioni giustificate da problemi strutturali.
Fu creata la Banca Mondiale che doveva affiancare il FMI nell’erogazione dei prestiti e negli studi e rilevazioni degli andamenti economici dei vari paesi.
Il sistema era di fatto un gold exchange standard, di stampo liberista e capitalista, con il dollaro come valuta di riferimento e prestatore di ultima istanza.
Venne introdotta la clausola della valuta scarsa, attraverso la quale un paese importatore, per ovviare ai crescenti squilibri commerciali, poteva imporre dazi protettivi nei confronti dei paesi esportatori secondo le regole, di volta in volta, dettate dal FMI.
L’accordo, grazie anche alle neo costituzioni occidentali del dopoguerra, garantì una sostanziale tenuta ed incremento degli scambi e dei commerci, ma presentava alcune distorsioni, causa la crescente offerta di moneta da parte degli USA, che esportava inflazione, indebolendo i paesi esportatori come Francia e Germania.
Bretton Woods terminò nel 1971 quando il presidente Nixon dichiarò che gli Stati Uniti non avrebbero più garantito la conversione in oro dei dollari stampati dalla banca centrale.
Nel corso degli anni ‘70, la divergenza tra la produttività del lavoro e la crescita dei salari, seguita negli anni ‘80 dalla deregulation sul movimento dei capitali, ha assunto sempre più la caratterizzazione di un mondo a trazione capitalista e liberista, con i governi degli Stati sovrani in crescente difficoltà nello svolgere la funzione di regolatore dell’economia, con gli attuali dissesti e disfacimenti dei sistemi di welfare concepiti nel dopoguerra.
Il progetto dell’Unione Europea aveva la funzione di stabilizzare un’area da sempre bellicosa e creare un cuscinetto, con protezione a stelle e strisce, tra il Medio Oriente e lo spauracchio russo.
L’intento statunitense fu quello di avere nella vecchia Europa un alleato unito, con una forte moneta di riferimento, che facesse da contro altare al progressivo indebitamento degli USA nei confronti della Cina, con il dollaro sempre più in difficoltà nel ruolo di organizzatore e pianificatore degli equilibri internazionali.
La costruzione Europea, iniziata con i vari accordi sin dagli anni ‘50, ha avuto la sua più forte manifestazione con il conio della nuova moneta, l’Euro, alla fine degli anni ‘90.
La mancata armonizzazione degli squilibri della nuova moneta ha creato una serie di elementi distorsivi e di impasse, con l’affiorare di segnali sempre più di sofferenza da parte di paesi che subiscono la forza delle economie dei paesi del nord, Germania in primis.
Il cambio fisso determina e determinerà sempre di più un indebitamento privato da parte di famiglie e imprese che utilizzeranno parte del loro reddito verso beni e servizi forniti dai paesi più competitivi che, grazie al mancato apprezzamento della loro moneta, vedranno sempre di più accrescere il loro surplus commerciale nei confronti degli altri paesi dell’Unione.
All’interno di trattati basati esclusivamente sulla stabilità di bilancio e virtuosità fiscale, i paesi debitori non hanno altra strada che tagliare indiscriminatamente produzione, reddito e welfare, per ovviare al progressivo deficit della bilancia dei pagamenti.
Da qui nascono il jobs act in Italia, la “loi travail” in Francia, meccanismi che hanno generato una svalutazione competitiva tra i vari paesi, con il successivo crollo dei consumi e recessione.
Il governatore della Bce, Mario Draghi, per tenere in piedi l’euro e i mercati, attraverso le varie manovre monetarie, ha svalutato l’euro del 25% nel 2015, provocando una reazione a catena da parte di tutti i paesi, con una guerra valutaria apparentemente calmierata degli accordi di Sendai di quest’anno, all’interno del meeting dei G7.
Il paradosso del momento è nella riproposizione di tutte le condizioni che hanno portato la grande depressione degli anni ‘30 e il successivo conflitto mondiale: protezione dei tassi di cambio con svalutazioni competitive, crollo della domanda e dei consumi e alta disoccupazione.
Nell’Europa di oggi servirebbe un paese leader che svolgesse la stessa funzione degli Stati Uniti: l’importazione di capitali e incremento dei consumi, redistribuzione dei surplus commerciali per trainare le economie dei paesi dell’Unione e un’architettura politica ed economica che prendesse spunto da una federazione di stati, con un governo centrale che redistribuisca gli squilibri creati dalla moneta unica e dal cambio fisso.
La realtà e il comportamento della Germania ci fanno pensare che i tedeschi non hanno la minima intenzione e struttura di paese per svolgere questo ruolo, e le cronache degli ultimi mesi mostrano i continui dinieghi all’armonizzazione dei sistemi bancari e fiscali dell’Unione.
Un ritorno alle monete nazionali potrebbe essere l’unico modo per sopravvivere ed evitare nefasti ricorsi storici.
Il tempo scarseggia e le popolazioni soffrono; il Brexit è stato solo il primo segnale.
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::autore_::di Gianluca Di Russo::/autore_:: ::cck::1416::/cck::