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La strage di poliziotti di Dallas commessa dall’afroamericano ed ex riservista dell’esercito Micah Xavier Johnson rischia di far precipitare l’America in un clima da guerra civile.
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La strage di poliziotti di Dallas commessa dall’afroamericano ed ex riservista dell’esercito Micah Xavier Johnson rischia di far precipitare l’America in un clima da guerra civile.
Cinque agenti uccisi per rappresaglia dopo l’interminabile conta di vittime di colore trucidate dalle forze dell’ordine a stelle e strisce negli ultimi anni. Solo nel 2016 i civili ammazzati dalla polizia negli Stati Uniti sono stati 510 di cui 124 di origine afroamericana. Numeri che danno l’idea dello stato di violenza che permea la società statunitense, la più armata del mondo intero, dove l’acquisto ed il possesso di un arma da fuoco sono un gioco da ragazzi.
L’eccidio di Dallas è avvenuto nel corso di una marcia di protesta dopo le recenti efferatezze della polizia, che avevano lasciato sul terreno due giovani di colore in Minnesota ed in Luisiana. Omicidi a sangue freddo, ripresi e poi messi in rete dai parenti delle vittime che hanno scioccato profondamente la maggior parte dell’opinione pubblica. C’è però un’America profonda, che continua a giustificare sia il possesso delle armi sia il comportamento delle forze dell’ordine, peraltro quasi sempre assolte nei precedenti casi di violenza che le hanno viste protagoniste.
Un clima d’odio che sta dividendo la prima potenza planetaria proprio nell’anno delle elezioni presidenziali che vedono contrapposti Hillary Clinton e Donald Trump, i due candidati che stanno dando vita ad una competizione senza esclusione di colpi. Una sfida estremamente accesa che di certo non aiuta a sedare gli animi, nonostante gli appelli alla calma pronunciati dallo stesso presidente Obama, recatosi a Dallas nei giorni successivi alla strage dove ha pronunciato un discorso di riconciliazione nazionale. Un appello destinato a cadere nel vuoto, vista la difficoltà di attuare delle riforme di vera giustizia sociale nonostante gli otto anni di mandato.
Secondo alcuni commentatori è proprio la Presidenza Obama, il primo nero a sedere sul più alto scranno degli Stati Uniti ad aver generato questa ondata di violenze. Una parte dell’America profonda, identificabile soprattutto negli stati centrali del paese che non ha mai riconosciuto un Presidente così lontano dalla loro storia. Un atteggiamento miope fomentato peraltro dal candidato repubblicano Donald Trump che ha sempre parlato di Obama come di un inquilino abusivo della Casa Bianca.
Parole che aumentano la rabbia, soprattutto in un apparato come quello della polizia mai seriamente riformato dai tempi dell’abrogazione delle leggi razziali. Basti dire che negli Stati Uniti su mezzo milione di poliziotti solo 58mila sono afroamericani, di cui la maggior parte appartenenti alla fascia più bassa della catena di comando.
C’è poi la grande responsabilità di alcuni network d’informazione che, nonostante tutto, continuano a giustificare il comportamento violento delle forze dell’ordine. Ma è anche il sistema giudiziario americano ad avere delle profonde responsabilità in quello che sta avvenendo. Secondo le ultime stime infatti la popolazione carceraria americana è costituita per oltre il 45% da cittadini di colore, con un tasso di carcerazione sette volte più alto di quello dei bianchi, dato aggravato dal fatto che una volta scontata la pena la possibilità di un reinserimento sociale appare quasi impossibile per gli appartenenti alle cosiddette minoranze. Tutti fattori che devono fare riflettere, affinché si ponga finalmente fine a questa ondata di violenze, nel nome di una pace sociale e di un destino più giusto per tutti.
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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::1414::/cck::