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L’accordo (pardon: il verbale!) firmato lo scorso 28 settembre da Governo, rappresentato dal Ministro Poletti, ed i sindacati CGIL, CISL, UIL, sugli interventi urgenti in campo previdenziale è stato salutato da reciproca soddisfazione, con qualche distinguo.
Chi riguarda: pensionati e pensionandi. Quanto costa: 6 miliardi in tre anni. Cosa riguarda: previdenza ed assistenza.
E qui comincia il difficile: l’intreccio tra previdenza ed assistenza, al punto che ogni tentativo di comprendere quali siano le misure previdenziali e quali quelle assistenziali viene frustrato dal perenne intreccio tra previdenza ed assistenza mai risolto dai governi che si sono succeduti dai tempi d’oro della prima repubblica ad oggi.
Va dato atto, comunque, a questo Governo, di aver voluto quanto meno calendarizzare per la futura seconda fase di questo accordo il tema della separazione tra previdenza ed assistenza. Ne abbiamo trovato traccia soltanto nella dichiarazione di Carmelo Barbagallo, segretario generale della UIL, cosa che equivale a scarso interesse degli altri due sindacati.
Per meglio comprendere di cosa parliamo facciamo un riferimento concreto ai primi due punti dell’accordo, il sostegno ai redditi medio – bassi da pensione e la cosiddetta 14ma mensilità, due misure chiaramente assistenziali, perché non coperte da contribuzioni individuali, ma finanziate dalla fiscalità generale.
Ma perché è così importante sapere se parliamo di assistenza o previdenza, ossia di copertura finanziaria a carico della fiscalità generale, determinata dalla condizione di bisogno per reddito insufficiente o, invece, di copertura finanziaria autonoma del sistema previdenziale dovuta principalmente, nel caso di lavoro dipendente a contribuzioni proprie e del datore di lavoro? Vediamolo insieme con qualche esempio, magari partendo dalla prima repubblica.
Nel corso degli anni ‘80 del secolo scorso, i dipendenti delle amministrazioni centrali dello Stato rivendicarono una sorta di privatizzazione del rapporto di lavoro e, con essa, un “trattamento di fine servizio” (TFS) analogo al “trattamento di fine rapporto” (tfr) del settore privato: un accantonamento di parte della retribuzione composta di una parte a carico del lavoratore ed una a carico del datore di lavoro (all’epoca Ministero del Tesoro). Quest’ultimo, oggi Ministero dell’Economia, però, mentre operava la trattenuta al lavoratore dipendente, dimenticava (!) di accantonare il relativo importo.
Quando nel 1993 fu costituito l’INPDAP (Istituto Nazionale Previdenza Dipendenti Pubblica Amministrazione), oggi assorbito dall’INPS, all’ente furono consegnate dal Ministero del Tesoro le posizioni contributive individuali degli assicurati, ma non i contributi monetari.
E siccome le pensioni dovevano essere corrisposte agli aventi diritto furono poste a carico del calderone della fiscalità generale. Di fatto si trattava di un “falso storico”.
Ora la domanda è: almeno da un punto di vista nominale, vogliamo vedere se il nostro sistema previdenziale è in equilibrio? E se questo non è vogliamo trovare un equilibrio reale, e non solo nominale nel nostro sistema previdenziale?
Non si tratta di un fatto solamente teorico. Né solo della sensazione di trovarsi di fronte a spinte meramente individualistiche provenienti dal mondo del lavoro che incidono anche sul ruolo stesso delle organizzazioni sindacali. Siamo dinanzi a nuovi assetti demografici dei cittadini italiani, che influiscono pesantemente sulle condizioni di vita di ciascuno che operi sul territorio italiano, sia esso cittadino e meno.
Secondo Guido Sarchielli e Franco Fraccaroli (Andare in pensione, il Mulino) con focus sui nati tra il 1945 ed il 1955, quindi ad età mature per conseguire la pensione di vecchiaia, grandi sono le differenze con i nati nel decennio precedente: speranza di vita nettamente superiore, e quindi molti più anni da trascorre dopo l’uscita dal lavoro, condizioni di salute nettamente migliori, e quindi possibilità di mantenere standard più intensi di attività psicofisica, livelli educativi e culturali molto più alti, e quindi probabile apertura a più interessi ed all’uso di tecnologie, esigenze e stili di consumo più ingenti, e quindi più necessità di reddito per la conservazione di stili di vita considerati accettabili.
Sul piano previdenziale siamo di fronte a cambiamenti demografici epocali con cui dobbiamo misurarci per evitare di lasciare ai giovani di oggi, una montagna di “debiti” cui dovranno fare fronte nel corso della loro vita. Se non sentissimo il peso di questa responsabilità, non ci sarebbe da meravigliarsi per il degrado morale che talvolta constatiamo nel nostro vivere insieme.
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::autore_::di Giorgio Castore::/autore_:: ::cck::1571::/cck::