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Messico e la minaccia Trump

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Peña Nieto e Donald Trump, montaggio foto di Italiani, foto di Chatham House e di Gage Skidmore, tratte da Flickr, Creative Commons 2.0 Generic.
L’agenda politica di Donald Trump, se si tradurrà in realtà, potrebbe innescare una seria crisi di recessione in Messico.

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Non si è neppure formalmente insediato alla Casa Bianca, eppure Donald J. Trump – vincitore delle elezioni presidenziali statunitensi dell’8 novembre scorso – ha già cominciato a danneggiare l’economia del vicino Messico.

Non è difficile immaginare il perché. Sull’odio per i messicani Trump ci ha costruito una buona parte della sua campagna elettorale, e molti dei principali punti della sua agenda politica hanno proprio a che fare con il Messico: dal progetto di un «grande, bellissimo muro» lungo la frontiera da costruire a spese del governo messicano alla rinegoziazione – o addirittura all’abbandono – dell’Accordo nordamericano per il libero scambio (NAFTA); dalla deportazione di massa di tutti gli immigrati irregolari sul territorio statunitense al blocco delle loro rimesse verso i paesi d’origine.

L’8 novembre il Messico ha seguito lo spoglio dei voti con comprensibile apprensione e nervosismo. E non appena il vantaggio di Trump sulla sua avversaria Hillary Clinton ha iniziato a farsi consistente, il valore della valuta messicana, il peso, è crollato del 12% rispetto al dollaro statunitense, raggiungendo il minimo storico di 20,70 pesos per 1 $. Le istituzioni messicane hanno cercato immediatamente di rassicurare i mercati e gli investitori sulle condizioni dell’economia del paese nel tentativo – rivelatosi fallimentare – di contenere le perdite: poco più di ventiquattr’ore dopo il peso ha nuovamente toccato il fondo, scendendo a 21,50 pesos per 1 $.

Per quanto determinante, l’“effetto Trump” sta, in realtà, soltanto aggravando delle fragilità di fondo dell’economia messicana, già immersa in una crisi inflazionistica (ad ottobre il tasso di inflazione era del 2,97%) e con un debito pubblico che ammonta al 45,7% del PIL. Il problema della debolezza del peso, ad esempio, è emerso con prepotenza già dal 2015, ed è causato – prima che da Trump – dal crollo del prezzo del petrolio, di cui il Messico è il decimo produttore mondiale.

In passato Donald Trump ha definito il NAFTA (ovvero l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico entrato in vigore nel 1994) il «peggiore accordo commerciale della storia» perché avrebbe incentivato le aziende americane a dislocare i propri stabilimenti a sud della frontiera per approfittare del basso costo della manodopera messicana, e ha perciò accusato direttamente il Messico di star «uccidendo» l’economia statunitense.

Ma ciò che Trump racconta non è reale. Per riuscire a raccogliere e sfruttare la rabbia di quegli americani – che certamente esistono – che dall’accordo non hanno tratto che svantaggi, Trump ne ha offerto una visione assolutamente parziale e semplicistica, nascondendo volutamente tutti i (grandi) benefici che il NAFTA ha apportato agli Stati Uniti. Proprio grazie al NAFTA, infatti, il Messico è diventato il secondo più grande mercato per l’export statunitense, il cui valore ha superato i 240 miliardi di dollari nel 2014, contro i 41 miliardi e mezzo del 1993.

Misurare l’impatto complessivo del NAFTA per il Messico è, invece, più complesso. Da un lato, la liberalizzazione del commercio ha reso il mercato messicano estremamente permeabile ai prodotti statunitensi (decisamente più competitivi), con grandi danni soprattutto per i piccoli e medi produttori agricoli locali; l’abolizione delle barriere doganali e la scarsa attenzione ai diritti dei lavoratori hanno invece trasformato il paese in un gigantesco “centro manifatturiero” dove i grandi imprenditori americani possono produrre a basso costo e riesportare in patria.

Dall’altro lato, il NAFTA ha effettivamente rappresentato per il Messico un’opportunità – per quanto carica di contraddizioni – per uscire dal sottosviluppo. L’economia messicana, però, dipende troppo dal mercato nordamericano: nel 2015 ancora il 73% delle esportazioni si rivolgeva ai soli USA, contro il 79% del 1993.

Non stupisce, insomma, se il Messico vive la minaccia trumpiana di una rinegoziazione del NAFTA come una catastrofe. Molti economisti prevedono per il paese una profonda crisi di recessione nel caso Donald Trump realizzasse davvero quanto promesso in campagna elettorale. Il presidente messicano Enrique Peña Nieto si mostra però sicuro: il NAFTA – ha detto – non sarà oggetto di rinegoziazione, ma può essere al massimo «modernizzato». Trump non la pensa evidentemente così, e forse neanche il Canada di Justin Trudeau. Staremo a vedere.

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::autore_::di Marco Dell’Aguzzo::/autore_:: ::cck::1682::/cck::

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