Economia

L’euro compie 15 anni: riforma o dissoluzione

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Particolare della copertina di España 2030 di José Moisés Martín Carretero. DEUSTO
L’impossibilità di adeguare una politica monetaria comune ad economie disuguali ha generato una serie di mostri: dal controllo dell’inflazione, unico risultato, all’incubo degli squilibri economici e sociali: la sfiducia politica è esplosa.

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Copertina di ESPAÑA 2030: gobernar el futuro di José Moisés Martín Carretero – Deusto

Nel panorama della vasta offerta informativa relativa al quindicesimo “compleanno” dell’euro abbiamo scelto di confrontare con l’articolo di Gianluca Di Russo “15 anni di euro: quale bilancio” che apre questa edizione di “italiani” quello dello spagnolo José Moisés Martín Carretero – Economista e consulente internazionale – pubblicato la settimana scorsa su Other News. Ringraziamo Autore ed Editore per la loro disponibilità.

L’Autore. José Moisés Martín Carretero – Economista e consulente internazionale. Ha diretto una società di consulenza specializzata nello sviluppo economico e sociale. Membro di Economisti di fronte alla Crisi. Autore di Spagna 2030: Governare il futuro – ha pubblicato su Other News “L’euro compie 15 anni: riforma o dissoluzione” che riproduciamo anche in lingua italiana.

Che bilancio possiamo fare? Certamente molto negativo. E’ necessario che i paesi cedano un’altra parte della propria sovranità e che la natura stessa dell’euro zona cambi radicalmente.
Era il gennaio 2002. Andavamo come scemi cercando di illuminarci sui cambi, se spendere tutto in una volta o mantenere un paio di pesetas, senza farci un’idea chiara del prezzo delle cose… era il gennaio 2002 e prendendo alcuni caffè in Sol ho lasciato due euro di mancia. “Hai lasciato 500 pesetas”, mi ha detto il mio amico Carlos. Io feci finta che non importava. Ma non avevo davvero idea se avessi lasciato molto o poco denaro fino a quando Carlos non confermò la mia splendida generosità.
Per la maggior parte dei cittadini, lo scambio che era già divenuto una realtà macroeconomica nel 1999 con l’impostazione dei tassi di cambio irreversibili era diventato più una questione di tutela da ufficio dei consumatori che di altro: il famoso arrotondamento, l’attenzione ai falsi e alle truffe, da fare con le pesetas, i franchi, i fiorini o marchi persi nei cassetti, la momentanea sensazione di perdere il senso del valore delle cose, insomma, questioni di vita quotidiana che poco o nulla oscuravano il risultato storico di maneggiare, dall’Andalusia a Helsinki, la stessa moneta. Addio agli sportelli di cambio, ai problemi di viaggio, alla debolezza della nostra peseta … tutti questi vantaggi oscuravano i problemi iniziali della transizione. Lontano dalla vita di tutti i giorni, solo pochi economisti levavano gran voce da dieci anni sulla irrazionalità della progettazione dell’Unione Economica e Monetaria: Pedro Montes è quello che più vividamente ricordo, ma anche non mancarono voci critiche da destra dello spettro politico. Marginali, in ogni caso, in quanto al consenso europeo e spagnolo, che allora raggruppava il 90% del Parlamento europeo e del Congresso dei Deputati, si scommetteva saldamente sul salto integratore e politico che rappresentava la creazione della zona euro.
L’impossibilità di adeguare una politica monetaria comune ad economie disuguali ha generato una serie di mostri che ci hanno portato a vivere il sogno europeo come un incubo
Quindici anni più tardi, e anche se sarebbe il momento di fare il punto, poche persone lo faranno. Dei 15 anni in cui la moneta unica è stata effettivamente nelle nostre tasche, ne abbiamo trascorsi otto di crisi. L’impossibilità di adattare una politica economica comune a economie con un grado di integrazione molto diseguale ha generato una serie di mostri che ci hanno portato a vivere il sogno europeo come un incubo. Infatti, è stata la recessione in Germania e Francia nel 2001/2002 che ha costretto la Banca Centrale Europea ad abbassare i tassi di interesse, menomando i crediti che alimentavano la nostra bolla immobiliare, quella dell’Irlanda e il debito pubblico della Grecia. Quando le tabelle furono modificate e il problema della crescita si spostò da nord a sud, i paesi dell’Europa centrale si sforzarono di mantenere una politica economica irragionevolmente rigida che portò i paesi del sud a stare pericolosamente vicino al fallimento. Bisogna ricordare che nel mese di giugno 2008, quando la crisi del debito stava già saltellando da paese a paese, la Banca Centrale Europea alzò i tassi di interesse al 4,5% per fermare l’inflazione. Poi arrivò il collasso e l’applicazione di regole che non furono mai pensate per fronteggiare uno shock asimmetrico di tali dimensioni. E mentre Trichet vantava una politica monetaria ultra-ortodossa, l’Eurogruppo garantiva che, qualunque cosa accadesse, le regole dell’eurozona non si sarebbero rotte.
Sforzo inutile perché fu in questo modo che ci si pose sotto una costante minaccia di rottura dell’euro.
A poco a poco stavano arrivando i primi rammendi. Il lancio del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria e poi del Meccanismo Europeo di Stabilità hanno permesso di avere un quadro di sostegno stabile di appoggio ai paesi con problemi di liquidità. Il rafforzamento della governance europea con il semestre europeo consentì di ordinare lo scambio delle elaborazioni delle politiche fiscali ed economiche sistematizzando il processo e consentendo una previsione intorno a cui ordinare la politica economica. Trichet fu sostituito da Draghi e la politica della Banca Centrale Europea cessò di essere parte del problema per cercare di essere parte della soluzione. Nel 2014, la Commissione affrontò una nuova strategia per promuovere la crescita economica attraverso un aumento degli investimenti – il Piano-Juncker – mentre la Banca Centrale Europea inaugurava – con ritardo di parecchi anni – la propria versione di espansione quantitativa. Le norme fiscali si andavano applicando in modo flessibile, fino al punto da perdonare le sanzioni ai paesi meno rispettosi, come la Spagna e il Portogallo. Solo la Grecia, capro espiatorio, è stata trattata senza tante cerimonie con un unico obiettivo politico: insegnare al sud dell’Europa gli svantaggi di un voto per i partiti della sinistra emergente.
L’unico risultato notevole dell’eurozona è stato quello di controllare l’inflazione. Gli squilibri economici e sociali si sono ampliati, e la sfiducia politica è esplosa.
Dopo quindici anni di euro di cui otto di crisi, quale bilancio si può fare? Certamente molto negativo. L’unico risultato notevole della zona euro è stato quello di controllare l’inflazione. La convergenza economica tra i paesi del sud e del nord si è fermata, e addirittura si è invertita durante la crisi. Gli squilibri economici e sociali si sono ampliati, e la sfiducia politica è salita alle stelle. E non è un problema di orientamenti politici. Nel The Euro and the battle of ideas, (l’euro e la battaglia delle idee) (Princeton University Press 2016), gli economisti Brunnermeier, James e Landau sostengono che è l’assenza di una visione condivisa della zona euro tra Francia e Germania che ha ostacolato la gestione della crisi. L’autore di queste righe pensa che non è tanto la direzione della politica economica quanto la stessa natura dell’eurozona che deve cambiare radicalmente. E’ improbabile che ciò avvenga nel contesto politico attuale, ma o lo facciamo o la moneta – e la Unione – europea stessa hanno i giorni contati. L’euro è un esperimento fallito, un “fallimento delle élite politiche”, come ha spiegato in un altro libro eccellente Manuel Sanchís.
Ora che sembra che le peggiori conseguenze della crisi economica diminuiscano, è urgente riprendere il programma delle riforme e proporre una riformulazione del progetto in profondità, che assuma fino alle sue ultime conseguenze la convenienza che la politica economica dell’eurozona si costruisca a beneficio di tutti i suoi membri.
Per questo è necessario che i paesi cedano un’altra parte della loro sovranità. Dal fatto che sarà fatto o no dipenderà il futuro della moneta e del continente. Perché se non risolviamo il disegno istituzionale della zona euro, se non generiamo meccanismi di riequilibrio e riattiviamo la convergenza reale, prima o poi, i demoni della zona euro torneranno a svegliarsi. Parafrasando Einstein quando parlava della terza e quarta guerra mondiale, non sappiamo quando sarà la seconda crisi dell’eurozona, ma quello che sappiamo è che è molto probabile che non ce ne sia una terza, perché l’eurozona sarà sparita.

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