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Con I muri che dividono il mondo, Tim Marshall si orienta fra muri fisici e mentali nella storia e nella geopolitica.
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Autore: Traduzione: Editore: Garzanti Uscita: 2018 (orig. Divided:Why we’re livingin an age of walls) Pagine: Pag. 271 (geopolitica) Prezzo: euro 19 |
Pianeta Terra. Oggi (ieri e domani). Dappertutto vediamo muri in costruzione lungo i confini, ci sentiamo più divisi che mai. Almeno 65 stati (su 193) hanno costruito barriere per meglio separarsi (praticamente e simbolicamente) dagli stati limitrofi, metà di quelle erette dal 1945 sono state create dopo il 2000. Vale soprattutto per l’Eurasia, uno sterminato territorio non isolato dal mare, ma in parte anche per gli altri continenti. Lo scopo principale è fermare le ondate immigratorie; non l’unico, gli altri in parte variano da paese a paese. Non è la prima volta che si fa, comunità umane hanno iniziato nel Neolitico, tante mura hanno circoscritto città e popoli e acceso il nostro collettivo immaginario storico (Troia, Gerico, Babilonia, Costantinopoli, imperi romano cinese inca). La Grande Muraglia misurava quasi 22.000 chilometri e serviva a demarcare i campi dalla steppa, l’agricoltura dal nomadismo, gli Han dai non-Han, la civiltà (cinese) dalla barbarie (altrui), unitariamente definita dall’esterno e dall’interno dei confini, pur essendo solo parzialmente efficace come difesa militare. Non è facile esaminare proprio tutte le regioni oggi divise da barriere fisiche, molte sì. Si può partire dal muro sui 3.200 chilometri di frontiera fra Usa e Messico, quello che il Presidente Trump vorrebbe presto completare. Oppure dai muri fra Israele, gli altri Stati vicini e il non-Stato della Palestina: Egitto (245 chilometri) e Siria, Cisgiordania (quasi 710) e Gaza (60). Per allargare poi lo sguardo all’intero Medio Oriente (muri fra tutti, in particolare ora costruiti da Giordania, Arabia Saudita, Kuwait, Turchia) e alle città piene di militari, dove le recenti guerre e la diffusa presenza di terroristi hanno fatto esportare il modello della “zona verde” di Baghdad recintata nel 2003. E ancora al subcontinente indiano, all’Africa, all’Europa, al Regno Unito, per concludere sulla necessità di costruire anche ponti e migrazioni sostenibili.
Il bravo colto giornalista e analista inglese Timothy John Tim Marshall (1959) ha scritto un secondo interessante libro (dopo quello con le dieci “mappe”) per orientarsi fra muri fisici e mentali nella storia e nella geopolitica. Il volume contiene oltre una 15ina fra foto all’inizio dei capitoli e figure delle aree geografiche analizzate, in bianco e nero, oltre a una finale discreta bibliografia essenziale. La narrazione è accurata, piena di spunti (pure terminologici e culturali), briosa e competente, con riferimenti trasversali in ognuno degli otto capitoli. Non è tanto un elenco di luoghi e dati dell’”era dei muri”, quanto una griglia comparativa sulle dinamiche istituzionali di chiusure e nazionalismi, partendo sempre dalla storia demografica e politica dei popoli oggi sovrani sui territori. Capiamo di più, a esempio, sul passato e sul possibile futuro delle potenze cinese (le zone cuscinetto e le colonizzazioni Han, le bistrattate masse nelle zone rurali, il sistema hukou della registrazione familiare, l’assenza di opposizione, la censura sui social media) e americana (l’espansione dei confini, i trascorsi schiavisti, il persistente razzismo, il peso crescente dello spagnolo, paradossi e ipocrisie nelle immigrazioni o importazioni illegali, i globalisti urbani e i nazionalisti non-urbani). L’autore ci induce a riflettere meglio sulle tante diverse migrazioni di massa in corso, anche quelle indotte dagli Stati per colonizzare territori irrequieti, quelle interne e meno visibili, quelle diasporiche di singole etnie, quelle dei rifugiati climatici. Sottolinea il ruolo dei muri non fisici (religiosi, psicologici, digitali), il carattere forzato di molti confini (a seguito del moderno colonialismo europeo), la penetrabilità di ogni barriera, dedicando l’ultima intensa parte al suo paese e alla Brexit in gestazione.
v.c.
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