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Rompiamo il silenzio sull’Africa

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L’appello di Padre Alex Zanotelli ai giornalisti italiani non si limita al “mea culpa” e spinge per sollecitare la rottura dell’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.

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Ndr: Nel luglio 2017 padre Alex Zanotelli, missionario italiano della comunità dei Combonian, lanciò ai giornalisti e alle giornaliste italiani l’«appello africano», che nonostante il tempo trascorso, conserva la sua attualità. Ecco il collegamento al testo integrale dell’appello Rompiamo il silenzio sull’Africa pubblicato sulla rivista Mosaico di Pace.

Padre Alessandro Alex Zanotelli (Livo, 1938) è stato per decenni in Africa, fu impegnato come missionario più a lungo in Sudan dal 1965 al 1973 e in Kenya dal 1989 al 2001, a Korogocho (nella lingua locale significa confusione, caos), una delle baraccopoli che attorniano la capitale Nairobi (lì lo andai a trovare nel 1997), da una vita si occupa delle 54 nazioni del continente a sud del Mediterraneo, lo ha vissuto e raccontato, sofferto e gioito, dal di dentro. Il suo appello a chi fa informazione affinché si rompa il silenzio sull’Africa è giusto nel merito e nel metodo.

Nel merito Alex ci dà una traccia di cosa succede di grande e ha piccolo spazio nel clamore giornalistico quotidiano italiano. Vi sono devastanti conflitti armati, più di ogni altra parte al mondo, molti con premesse storiche che chiamano in causa i paesi europei. Vi sono sconvolgenti cambiamenti climatici, come ovunque causati da scelte di produzione e consumo compiute altrove, con effetti devastanti proprio su quelle incolpevoli popolazioni locali, ancor più in prospettiva. Chiede di far capire bene ai cittadini italiani che molti sono e saranno costretti a fuggire da quei conflitti militari e da quei fenomeni atmosferici, comunque! Non possono scegliere di restare, se non morendo. Non possono essere aiutati a casa propria, se non viene garantito il diritto di restare lì. Non esercitano un qualche grado di libertà di migrare e spesso muoiono dopo essere partiti, ben prima di arrivare da noi.

Nel metodo Alex ci chiede di non chiudere orecchie occhi cervello, di reagire alla scarsa o distorta informazione sul continente più antico, quello originario di tutti noi sapiens, quello da cui partì un piccolo gruppo di neri, loquaci e creativi, per generare poi in ogni parte del mondo progenitori e genitori alla fin fine di tutti i sette miliardi e mezzo di individui umani attuali. L’appello non riguarda qualche giornalista in particolare in un giorno preciso, riguarda chiunque è sui social o esprime opinioni in pubblico, dal momento in poi della presa di attenzione e coscienza sull’Africa contemporanea.

In Africa ci sono molti sanguinosi conflitti armati in corso, spesso da moltissimi anni. Le guerre sono sempre il portato di processi storici di lungo periodo, non della particolare litigiosità degli umani capitati lì a vivere. In particolare, negli ultimi secoli in Africa le guerre militari sono conseguenza del nazionalismo (come altrove nel mondo, iniziato tuttavia non da secoli come per noi, ma da decenni) e del colonialismo (come soprattutto lì, nel mondo, l’Africa è stata occupata militarmente e sfruttata economicamente da nazioni di altri continenti, soprattutto europee). I confini di derivazione coloniale hanno spesso messo insieme società diverse per lingua, cultura, storia, identità antiche di popoli e tribù. Nell’ultimo quarto di secolo le guerre africane sono state quindi combattute tra gli Stati oltre che all’interno dello Stato, spesso con armi pesanti e leggere (Zanotelli cita l’enorme vendita di quelle italiane) e interessi economici e commerciali in campo di paesi non africani.

Lo scorso anno ha trovato una sua negoziazione e forse conclusione il decennale conflitto fra Etiopia ed Eritrea, e Zanotelli ricorda come l’Eritrea resti uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani costretti a fuggire. Zanotelli cita le intestine civili in Sud Sudan, Sudan, Somalia, Centrafrica, Ciad, Mali, Libia, Congo (e si potrebbe forse aggiungere la Nigeria). In qualche caso si tratta di guerre intestine, in altri di spinte separatiste armate, in altri ancora (come Somalia e Libia) di lotte militari fra differenti “governi” interni e rivali. Le armi significano morte, distruzione e migrazioni forzate. Le statistiche elaborate annualmente dall’Alto Commissariato per i Rifugiati fotografano purtroppo la situazione anche nel 2017: Sud Sudan, Somalia, Sudan, Congo, Centrafrica, Eritrea, Burundi risultano 7 dei primi 10 paesi da cui sono fuggiti milioni di donne e uomini (gli altri sono Siria, Myanmar, Afghanistan). E l’istituzione norvegese che si occupa dei delocalizzati interni aggiunge che si trovano in Africa i primi 5 paesi con i conflitti più “trascurati” (neglected), e quindi con più rifugiati interni (ai citati andrebbe aggiunta l’Etiopia. Alcune di quelle aree sono poi direttamente investite dalla grande guerra transnazionale che l’estremismo fondamentalista sta combattendo per l’Islam a partire dal Medio Oriente, il che comporta ulteriori flussi migratori forzati rispetto a libertà religiose e personali vietate.

I più recenti rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), il quarto del 2007, il quinto del 2014, diversificano il quadro dei cambiamenti climatici nelle varie aree e regioni del pianeta, elaborando anche una mappa dei principali elementi fisici e biologici degli ecosistemi e dei contesti ecologici. Negli scenari di previsione si collocano sulle mappe i rischi di innalzamenti del mare, eventi estremi e stress idrici (in particolare le sempre più frequenti siccità nelle aree centrali sotto il Sahara, un poco a nord e un poco a sud dell’equatore), con conseguenti carestie e sete. Secondo l’Ipcc quasi tutte le aree a rischio di emigrazione indotta dai cambiamenti climatici sono aree secche. Nell’ultimo decennio le siccità sono state gravi in oltre dieci paesi, devastanti in Kenya, Etiopia, Somalia. In tutti gli scenari la più ricca riserva di patrimonio genetico vivente, l’Africa, è il continente più a rischio di migrazioni indotte. Secondo l’ultimo rapporto della FAO gli eventi climatici estremi sono una delle principali ragioni della crescita della fame nel mondo: il numero di persone malnutrite è cresciuto nel 2017 a 821 milioni (da 784 nel 2015 e 804 nel 2016), il continente con la maggiore percentuale di persone in “grave insicurezza alimentare” (il 29,8 per cento) è l’Africa.

Zanotelli ricorda che i cambiamenti climatici rischiano di rendere inabitabile entro fine secolo tre quarti del territorio africano (l’avanzata del deserto si misura in molte decine di metri ogni anno) e che già oggi ci sono trenta milioni di persone affamate in Etiopia, Somalia, Sud Sudan (richiamate anche per i conflitti), Kenya e intorno al lago Ciad. Il fenomeno delle migrazioni forzate da tutta l’Africa verso il Mediterraneo e l’Europa sarà certamente uno di quelli più importanti da affrontare negli anni a venire se si aggiunge che in Africa l’età media della popolazione, oggi, si aggira intorno ai 18 anni (in Italia è quasi 45 anni) e si conferma la meditata previsione scientifica che i suoi cittadini (oggi oltre 1,2 miliardi) nel 2050 saranno raddoppiati arrivando a essere quasi 2,5 miliardi (tendenzialmente oltre 4 miliardi a fine secolo).

Zanotelli osserva che solo introiettando queste informazioni si “può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare a noi“. Una vita che spesso perdono lungo la pericolosa strada (deserto o mare che sia), ulteriormente lastricata di sfruttamenti e oppressioni. Una vita che ancor più metteranno comunque a rischio nei prossimi anni e, probabilmente, decenni. L’Africa è il continente da dove è finora emigrata liberamente la percentuale minore di popolazione; il continente dove la percentuale maggiore degli abitanti vive ancora nello stesso paese di nascita e il continente con più sacche di povertà assoluta (32 dei 47 paesi definiti come meno sviluppati sono africani); il continente con la previsione della maggiore relativa crescita demografica (nonostante le malattie ancora più mortali e la pandemia di Aids) e l’unico continente proiettato ad avere nel 2050 più giovanissimi (sotto i 15 anni) che anziani (sopra i 60); il continente dove quanti vivono in povertà sono destinati a continuare a diminuire in percentuale (a esempio dal 56% del 1990 al 43% del 2012) e aumentare in assoluto (da 280 a 330 milioni di persone in carne e ossa); il continente con la relativamente maggiore urbanizzazione (già oggi molto diffusa, spesso senza aver conosciuto le fasi di socialità e aggregazione, ad esempio delle città europee: vivono negli slum la maggioranza degli abitati cittadini africani, le comunità più ricche in quartieri fortificati) e con la maggiore futura industrializzazione (oggi poco diffusa e poco intensa); il continente dove 600 milioni di umani vivono senza elettricità e nel prossimo decennio 90 milioni sono a rischio malaria (per aggiungere due esempi). Il continente dove l’autoproduzione di cibo è stata per millenni e secoli il 100% dei consumi e ora diminuisce, nel 2010 produce solo l’80% di quanto consuma, la crisi alimentare è drammatica in molte aree (sette dei dieci paesi con il più alto livello di ineguaglianza del mondo si trovano in Africa) e molte aree di vari paesi sono sulla strada di nuova colonizzazione infrastrutturale e agricola da parte di vecchie e nuove potenze finanziarie e commerciali.

Per ora non c’è nessuna invasione di africani in Europa, né la prevenzione è mai stata o potrà essere costruire muri per terra e per mare. Nel 2017 su 10 milioni di profughi africani solo circa 172.000 hanno tentato di attraversare il Mediterraneo, la grande maggioranza è ancora in Africa, spesso in campi profughi africani, interni o esterni (limitrofi) al proprio paese, moltissimi sono morti o detenuti altrove, nella nostra inconsapevolezza. Anche per aiutarli a casa loro, visto che la cooperazione allo sviluppo è relazione bilaterale fra stati, il problema sta nel modo recentissimo e poco accettato in cui si sono formati gli stati nazionali africani. Gli (almeno otto) stati europei (fra cui l’Italia) colonizzarono e unificarono con la forza centinaia di nazioni e tribù, lasciando poi in eredità confini forzati (che però esistono nel diritto internazionale) e valori non condivisi (che però agitano le comunità etniche), in cui spesso il gruppo etnico principale ha iniziato a dominare tutti gli altri, facendo prosperare favoritismi e corruzione, povertà e criminalità (pure ben conosciuti negli altri continenti). Abbiamo citato i paesi dell’Africa con un grave grande conflitto in corso, altri esistevano in passato, altri sono latenti o più piccoli, nella consapevolezza che la maggior parte delle migrazioni forzate finisce nei paesi limitrofi (o comunque resta interna al continente) e che dinamiche xenofobe sono rilevanti “fra” i neri africani (che non sono tutti neri allo stesso modo). Ignorare o negare le divisioni che lacerano l’immenso continente africano non le farà certo sparire, né farà sparire i migranti forzati. Grazie Padre Alex!

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::autore_::di Valerio Calzolaio::/autore_:: ::cck::2906::/cck::

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