La parola

VINCOLO

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La parola della settimana

Arieccoli! A volte ritornano! Ci risiamo! Tre esclamazioni che ci consentono di spiegare perché a distanza di un anno dieci mesi, dopo un cambio di esecutivo surreale e ancora incomprensibile (a parte la scontata necessità di rimanere al governo per i cinquestelle e di tornare per il Pd …), ci troviamo in certo senso costretti a riflettere nuovamente sulla proposta dei pentastellati di introdurre il vincolo di mandato – la parola di questa settimana – per i loro parlamentari in primis.
Una necessità, un impulso cogente data la estrema fluidità dell’appartenenza al movimento e l’attuale fase di sfaldamento e scardinamento dei gruppi parlamentari.
Dunque, come prima riflessione: una questione immanente, egoistica, di parte, legata all’incapacità/impossibilità (per fortuna!) da parte della piattaforma Rousseau, di Casaleggio junior, del guru Grillo e del capo politico Di Maio, di irregimentare la pattuglia presente alle Camere. Ovvero non un interesse del Paese, della democrazia, ma una semplice manfrina per controllare gli eletti, costringerli a posizioni alle quali sarebbero ostici, a impedire che la coscienza di ognuno si misuri con gli impegni politici e scelga di conseguenza il da farsi.
Una seconda riflessione è certamente quella per la quale i cinquestelle giallorossi, al contrario di quelli gialloverdi (chi riesce a identificare la differenza mostra un intelligenza sovrumana!) vengono indicati come più di sinistra o vicini alla sinistra. A parte il fatto che nessuno sa più che cosa sia la destra e cosa la sinistra come ricordava il grande Giorgio Gaber, rimane estremamente arduo vedere un qualcosa di sinistra in Di Maio dopo quattordici mesi di governo con la destra leghista. Si dirà, la politica è l’arte del possibile e tuttavia, non si può accettare che diventi l’arte dell’indecenza. Lasciando però le sorti personali e l’analisi dell’io del capo politico a capacità ed esperienze che non ci appartengono e attengono la psicologia, appare evidente come in un sussulto sinistrico per così dire, si torna a parlare del vincolo di mandato come soluzione al problema dei cambi di casacca in corso di legislatura.
Perseverare, però, soprattutto nell’errore è non solo diabolico, ma dannoso per il Paese. E fa pensare che se qualcosa di sinistrico (si perdoni il neologismo) vi è nei cinquestelle, questo sia di stampo sovietico o da ancien regime dove si qualificava come fedeltà al sovrano. Due esempi che nelle nostra situazione fanno impressione prima di indurre ad una sonora risata!
Giova allora ricordare alcune elementari regole.
La prima è che la scelta di pensare a un vincolo di mandato – al di là di valutazioni politiche contingenti e transeunti – ha un limite (guarda un po’, proprio un vincolo) nell’art. 67 della Costituzione italiana che recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Un muro invalicabile, un memento che viene proprio da quella a volte mitizzata Costituzione e che tuttavia guarda caso indica concretamente la strada da non lasciare per rimanere nel solco di essa e della democrazia rappresentativa.
Un articolo scritto e concepito per garantire la libertà di espressione più assoluta ai membri del Parlamento e, per garantire questo fondamento di democrazia, i costituenti ritennero opportuno che ogni singolo esponente delle Camere non fosse vincolato da alcun mandato né verso il partito cui apparteneva quando si era candidato, né verso il programma elettorale, né verso gli elettori che, votandolo, gli avevano permesso di essere eletto, il cosiddetto divieto di mandato imperativo.
L’unico vincolo che lo lega agli elettori  – questo il senso  – assume, invece, la natura di responsabilità politica e di coerenza.
Una prescrizione costituzionale non è un’esclusiva della Carta fondamentale italiana, ma è comune alla quasi totalità delle democrazie fondate sulla rappresentanza e deriva dal principio del libero mandato pensato da Edmund Burke già prima della Rivoluzione Francese, nel suo Discorso agli elettori di Bristol, tenuto il 3 novembre 1774, dopo la sua vittoria elettorale in quella contea. In quel discorso, Burke propugnò la difesa dei principi della democrazia rappresentativa contro l’idea, da lui considerata distorta, secondo cui gli eletti dovessero agire esclusivamente a difesa degli interessi dei propri elettori. «Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell’intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale», le sue parole, poi riprese nella sostanza nella Costituzione francese del 1791 e alla base di tutte le carte fondamentali dei paesi a forma democratica rappresentativa (era previsto si pensi anche nello Statuto Albertino). 
Il mandato imperativo era invece (ed è) parte integrante delle costituzioni degli  stati socialisti che assoggettano a vincolo il mandato rappresentativo dei membri delle assemblee ai diversi livelli territoriali, fino al parlamento nazionale, rendendone possibile la revoca da parte del partito di appartenenza, vero dominus dell’iniziativa politica in tali sistemi – ed è all’origine delle critiche che il sistema europeo dei diritti umani ha rivolto agli stati ex sovietici nel corso della loro transizione alla democrazia.
Il vincolo di mandato attualmente vige soltanto in Portogallo, a Panama, in
Bangladesh e in India. Da aggiungere il Nicaragua, dove la Costituzione prevede che il deputato che entri in conflitto con il partito nelle cui liste è stato eletto passi dalla condizione di titolare a quella di supplente.
Tra le contestazioni al principio quello delle derive trasformistiche, cioè la facoltà abusata di trasmigrazione a gruppi parlamentari diversi da quello di elezione che è stata ripetutamente sfruttata nel corso di varie legislature. Autorevoli commentatori osservano però che non è il principio costituzionale la causa, quanto piuttosto meccanismi elettorali che condizionano gli eletti a chi ne decide ad esempio la candidatura. Un problema certo di non poco conto come dimostrano gli avvenimenti
recenti e recentissimi. 
E tuttavia, appare sintomatico di un modo accentratore e dirigistico di concepire l’impegno politico, quasi quello di una setta, di un gruppo ristretto, quello che i pentastellati sembrano inclini ad adottare. Un elemento inquietante cui fanno da corollario vere e proprie punizioni economiche e ostracismi come quelli che abbiamo visto manifestarsi nella scorsa legislatura con la perdita di decine di parlamentari
espulsi per aver espresso posizioni non coincidenti a quelle del guru o che hanno abbandonato il gruppo volontariamente. Mancava solo la famosa autocritica maoista dinanzi al popolo che voleva punire il reo. Ma potremmo anche non disperare!
In sostanza, si tenta ancora una volta di forzare la Costituzione, di modificarne il senso, in nome di interessi di parte. Senza contare che l’iter di una inaccettabile modifica essendo l’idea sostanzialmente anticostituzionale, non potrebbe essere certo concepita come ritocco andando a colpire uno dei fondamenti del sistema democratico e rappresentativo nel quale viviamo. E poi non si può tentare di forzare
la mano, mentre si tenta per l’ennesima volta di riproporre una legge elettorale in senso proporzionale che aumenterebbe la confusione. In conclusione non si capisce come si voglia aumentare la capacità rappresentativa prevedendo allo stesso tempo la negazione stessa di un suo fondamento. Ma tant’è, ci tocca vivere anche questa contraddizione. E’ da sperare che simili tendenze vengano respinte al mittente!

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