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Governo e sentire popolare

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Il voto in Umbria un allarme per i nuovi equilibri dell’esecutivo

La tendenza a tentare di spiegare l’inspiegabile e a minimizzare evoluzioni evidenti e incisive fa parte si può dire da sempre del costume politico nazionale. Cambiano gli anni, cambiano i protagonisti, ma non muta l’incapacità di cogliere quello che accade e possibilmente prevederlo per limitarne gli effetti. Accade ed è accaduto in tutti gli ambiti nei quali governare avrebbe dovuto significare anticipare i problemi e dunque le soluzioni possibili, prevedere i fenomeni o almeno saperli interpretare per accompagnarli. Lo stato deficitario dell’intero sistema Italia, le divisioni territoriali, i problemi infrastrutturali, i servizi inefficienti sono la cartina di tornasole di questa sostanziale incapacità.
Quel che contraddistingue la fase attuale è che questa difficoltà si è accentuata sino a rendere ingovernabile le stesse forze politiche che dovrebbero, o meglio avrebbero dovuto, prevedere, comprendere, accompagnare l’evoluzione e possibilmente lo sviluppo del paese nel suo insieme.
Gli avvenimenti che hanno portato al cambio in corsa dell’esecutivo e il voto in Umbria di qualche giorno fa pongono una serie di domande per rispondere alle quali andrebbe recuperato il senso complessivo delle cose. Se la crisi agostana per così dire autoprodotta dal leader della Lega ha condotto nel volgere di due settimane alla nascita di un esecutivo tra Pd e cinquestelle con alla guida lo stesso premier precedente – caso pressoché unico nella storia pur ricca di illogicità ed eccentricità della Repubblica – le scelte degli abitanti della regione Umbria hanno in parte spostato l’asse dell’analisi mostrando quello al quale nessuno degli attori aveva pensato attentamente: la volontà popolare.
Più volte in queste riflessioni abbiamo sottolineato come il punto nodale sia sempre stato il modo nel quale i cittadini analizzano le evoluzioni dei politici e attraverso il voto cercano di indicare la strada alla politica. In questi anni la confusione è apparsa crescente e lineare con la crisi strutturale di ogni rappresentanza politica consolidata.
Il voto umbro mostra che anche il nuovo che non avanza più, il tentativo di distruggere il sistema, ha sempre davanti a sé i conti da fare con la volontà popolare, con quei cittadini del cui intendimento si fa spesso finta di percepire le caratteristiche.
Pensiamo ad esempio ai costi della politica, alle proteste popolari per gli sprechi: ritenere di risolvere il problema con il semplice taglio dei parlamentari potrebbe non cogliere il senso reale della crisi ed anzi è palmare il rischio di complicarla con il non gradevole corollario di diminuire la rappresentanza politica nel paese senza allo stesso tempo costruire nuovi canali di raccordo tra cittadini ed eletti.
I cittadini delle province di Perugia e Terni, pochi secondo alcuni, non significativi a livello nazionale per altri – il tutto ad usum degli analisti soprattutto vicini a chi ha perso – hanno mostrato due elementi collegati: il primo che la tendenza al calo dei votanti può invertirsi se in gioco vi è non la protesta a sé stante ma la necessità di superare una impasse e una crisi vera; secondo che di fronte alla disinvoltura ai limiti della sfacciataggine con la quale si è pensato di risolvere la crisi del precedente esecutivo nazionale, una regione da decenni legata ad una lettura politica di sinistra alternativa, ha assestato uno schiaffo cocente ed umiliante proprio al partito principale di essa e soprattutto a quella parte dei grillini ritenuti vicini alla sinistra e sulla alleanza elettorale con i quali si fondavano le aspirazioni del Pd di riavviare una stagione virtuosa. Aver agito per pura tattica, motivando la scelta con la volontà di rimanere al governo in vista della prossima elezione al Quirinale (scopo non recondito ma addirittura teorizzato) non ha portato bene e il risultato in Umbria è tale da non dare alito al proseguimento di tale intesa, in modo tanto chiaro quanto è evidente che il voto è andato in modo diretto ed inequivocabile verso il centrodestra a trazione leghista, anche oltre le previsioni. Ovvero l’esatto contrario dello scenario ipotizzato con l’accordo con i grillini. Si può anzi osservare che dal voto appare chiaro il sostanziale fastidio, la non consonanza con le decisioni avvenute a livello nazionale.
Si accorgeranno di questo in modo serio i due alleati? Difficile dirlo. Sulle prime le reazioni sono state improntate alla presa d’atto di un dato politico negativo, peraltro altamente prevedibile, con indicazioni contrarie al proseguimento dell’intesa.
Tuttavia la necessità di governare il paese (sino a quando non è dato sapere) non consente di arrivare alle necessarie conclusioni. Dunque si minimizza il peso delle elezioni come un caso legato alle vicende locali, dimenticando che l’Umbria per decenni è stata una garanzia immancabile della narrazione di sinistra, significativa per tutta l’Italia. Non avvertire il vero valore di un voto limitato ma significativo oltre i confini regionali è miope e rischioso e accentua la sensazione di divergenza tra chi governa e il sentire popolare. Il contrario del presupposto sul quale l’esecutivo è nato: riequilibrare la spinta populista, contenere la crescita della Lega e del centrodestra in genere.
Per Salvini e alleati, la lezione del governo giallorosso, sarà positiva se verranno smussati gli aspetti più populisti e compreso che il popolo italiano non vuole esasperazioni ideologiche, ma azioni e decisioni capaci di riavviare lo sviluppo, in un quadro europeo dal quale non si può prescindere, in un riequilibrio tra le diverse aree del paese. La crescita dell’affluenza mostra che il consenso si amplia, è vero, ma che pone anche l’esigenza di risposte più meditate e coerenti con un paese che non può vivere con un’economia ferma e inseguendo finalità eccentriche rispetto a quelle di un vero governo che affronti e sciolga le contraddizioni invece di acuirle.

di Roberto Mostarda

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