Grazie alla recente pubblicazione del suo epistolario
Attraversando ponte il Garibaldi, lasciando sul lato sinistro l’isola Tiberina, si arriva all’altra sponda dove entra nel quartiere tra i più tipici della città, l’antica Trastevere e subito si è accolti da una grande piazza dove a fare gli onori di casa troviamo una bella grande statua di un uomo in cilindro appoggiato alla balaustra del ponte Fabricio più noto come il ponte dei Quattro Capi.
L’uomo raffigurato è il celebre poeta romanesco Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli, più noto semplicemente come Gioacchino Belli e di cui la piazza prende il nome.
Un uomo di ingegno amante dello studio e della letteratura e nientemeno accostato da alcuni critici internazionali ai poemetti di William Shakespeare, era tutt’altro che popolano e volgare come sembra emergere dai suoi sonetti, ne scrisse ben 2279, che lo resero celebre non solo a Roma, ma addirittura all’estero, tanto da essere tradotto anche in inglese, francese, tedesco e addirittura in russo.
Ad onor del vero non so come abbiano potuto tradurre un vernacolo molto stretto romanesco nelle proprie lingue, probabilmente assai bene, visto il successo che riscosse in quelle nazioni.
L’opera e la figura del Belli hanno avuto nel tempo momenti di grande splendore, l’ultimo si ebbe intorno ai nostri anni ’70, e di grande oblio fino ad arrivare ai giorni nostri con un opera a dir poco imponente, ma non sulle sua opera, bensì sulla sua vita attraverso 1200 pagine dell’Epistolario edito da un editore coraggioso come Quodlibet che raccoglie circa un migliaio di lettere alcune completamente inedite ritrovate tra archivi, biblioteche, lasciti pubblici e privati, un lavoro immenso per il quale suo curatore, il , ha impiegato alcuni anni per districarsi in questo mare magnum di documenti.
In compenso l’opera editoriale, nonostante, la sua voluminosità è godibilissimo e di piacevole lettura, un opera, ci permettiamo sottolineare, che toglie anche quel senso di popolaresco volgare per farci conoscere un uomo assai colto e raffinato.
Ma chi era in realtà il Belli? Attraverso le sue lettere scopriamo un personaggio a dir poco contraddittorio facile alla battuta e allo sfottò, ma anche un eterno depresso, generoso ed egoista, pronto alla battaglia per poi tirarsi indietro, da fustigatore del potere papale si trasformò in un reazionario e censore pontificio fino a temere di morire a causa dei suoi scritti lontano dal perdono di Dio.
Era nato a Roma, due anni dopo la Rivoluzione Francese, nel 1791, in una
famiglia benestante con quattro fratelli dei quali rimase solo lui e una sorella che in seguito si fece suora.
Ad appena sette anni, nel 1798, con la famiglia dovette fuggire a Napoli per l’occupazione della città da parte dei francesi, ma l’esilio durò poco. Nel 1800 la famiglia torna nello Stato Pontificio e si stabilisce a Civitavecchia dove il padre ottenne un ottimo impiego al porto della cittadina, ma la fortuna durò poco.
Appena due anni dopo il padre morì a causa del tifo lasciando la sua famiglia in condizioni critiche economicamente e costringendola a tornare a Roma presso i parenti.
Purtroppo, anche questa situazione già grave divenne drammatica con la morte anche della madre nel 1806. Si presero cura di lui dei zii paterni, ma fu costretto ad abbandonare gli studi e cominciare a lavorare per pochi “bajocchi”.
Nel 1812 sembra che la fortuna finalmente gli arrida.
Venne assunto nel nobile palazzo del principe polacco Stanislao Poniatowsky in via della Croce, come segretario tutto fare, ma anche qui la fortuna durò poco per aver insidiato, sembra con successo, niente meno che la moglie del principe ed in breve si ritrovò solo e senza un soldo.
Per sua fortuna, in quegli stessi anni aveva scritto una serie di operette come Dissertazione intorno la natura e utilità delle voci, le Lamentazioni, poemetto di nove canti in versi sciolti, con atmosfere notturne, la Battaglia celtica, entrambe a imitazione del Melchiorre Cesarotti, allora in gran voga, e La Morte della Morte, del 1810, un poemetto scherzoso in ottave, scritto a imitazione di un famoso scrittore rinascimentale come Francesco Berni, opere che gli permisero di entrare nella giovane Accademia Tiberina; un ambiente culturale impregnato di avversione verso l’impero francese dove trovò personaggi importanti come il principe di Metternich o il sacerdote Mauro Cappellari, futuro papa Gregorio XVI.
In Questo periodo trovò la possibilità di scrivere ancora una decina poemetti e nel 1815 si cimentò anche con il teatro portando in scena due commedie tradotte dall’opere di Benoît Pelletier-Volméranges.
Dopo questa esperienza, entrò nella più celebre Accademia dell’Arcadia con lo pseudonimo di Linarco Dirceo, di cui fu in seguito segretario, presidente e censore tanto da mettere all’indice niente meno che William Shakespeare.
Nel 1816 sposò una ricca vedova con molti beni un po’ in tutto lo Stato Pontificio e grazie a queste sostanze la coppia si stabilì al palazzo Poli, quello per intenderci che termina con la famosa fontana di Trevi.
Fino a quel momento però non troviamo un suo grande interesse per il dialetto, fu dopo un viaggio a Milano, città che lui amò moltissimo, che conobbe l’opera di Carlo Porta e i suoi versi in vernacolo meneghino.
Una esperienza che gli fece comprendere la ricchezza e la grande dignità del dialetto come forma di espressione ricca di “ogni colore”.
In una lettera all’amico Placido Gabrielli scriveva in merito al dialetto romanesco “favella non di Roma, ma del rozzo e spropositato suo volgo” che pur tuttavia amava tanto e proprio grazie a questa sua qualità di immedesimarsi nel suo dialetto che il principe Luciano Bonaparte lo incaricò di tradurre in romanesco il Vangelo di Matteo, ancora oggi considerato un capolavoro linguistico.
Nell’introduzione ai suoi sonetti scrisse:” Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo e questo io ricopio”.
Sentendosi ormai vicino alla morte chiese ai suoi famigliari di distruggere tutti i sonetti per i quali nutriva un grave disagio, quasi vergogna per le volgarità e i temi ed ebbe paura di aver offeso di Dio gravemente. Morì per un colpo apoplettico nel 1863 con tutti i conforti religiosi a cui teneva moltissimo.
Per nostra fortuna il figlio conservò gelosamente tutto il carteggio che è giunto intatto fino a noi. Alla fine possiamo racchiudere proprio in un sonetto la sua filosofia di vita: “E pper urtimo, Iddio sce bbenedica, / viè la Morte, / e ffinissce co l’inferno.”
di Antonello Cannarozzo