La parola

PRESCRIZIONE

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La parola della settimana

La continuità con la quale in questa rubrica siamo costretti dalle circostanze a occuparci nuovamente di un vocabolo, di una parola ai quali sono ovviamente sottese una serie di riflessioni, è una cartina di tornasole di come la nostra comunità associata, il nostro paese, si attanagli senza apparenti o reali soluzioni ad alcuni temi che non trovando soluzioni sono sempre lì a marcare il ritardo, la difficoltà di superamento, in sostanza l’incapacità strutturale di sciogliere nodi e andare avanti.
A volte ritornano, dunque, è l’espressione anch’essa a suo modo immutabile con la quale dobbiamo fare i conti. E non solo in termini di persone, di concetti, di circostanze, ma in una sorta di “loop” al quale sembra ancorata la nostra situazione politica, giuridica, sociale. Cambiano i riferimenti, sembrano cambiare, ma la sostanza rimane sempre la stessa. La frase fa riferimento alla prima raccolta di racconti dello scrittore Stephen King. La maggior parte delle storie brevi più vecchie di King è stata inclusa in questa collezione, nella quel indubbiamente si racchiude il genio particolare e un po’ inquietante di questo romanziere.
Per quel che ci riguarda il ritorno è legato espressamente alla mancanza di soluzioni ai problemi, nel ritardo con il quale essi problemi vengono identificati, affrontati e raramente risolti. E così in un trend al quale tutti sembriamo assuefatti o rassegnati!
Dunque la parola è prescrizione. Da settimane, mesi, anzi da anni, in certo senso da decenni ci si occupa di essa. Potremmo dire che la sua vigenza, in quanto istituto giuridico è inversamente proporzionale alla capacità del sistema giudiziario di dare compiutezza alla sua funzione: dare giustizia in tempi ragionevoli per ricomporre il tessuto sociale strappato da eventi, comportamenti contra legem. Ecco allora che l’affannarsi a trovare una soluzione o il tentativo irrazionale dei nuovi venuti, i portatori del nuovo che non arriva mai, di usare quella che si indica come “legge del taglione” per risolvere in modo asettico, acritico e anch’esso in contrasto con legge e giurisprudenza, quello che è il nodo del nostro sistema, la funzionalità della giustizia, si appalesa per quello che è, uno slogan dannoso così come il trionfalismo dell’aver eliminato la povertà.

Per comprendere, osserviamo che come legge del taglione (o pena del taglione), in latino lex talionis, si intende un principio di diritto consistente nella possibilità riconosciuta a una persona che avesse ricevuto intenzionalmente un danno causato da un’altra persona, di infliggere a quest’ultima un danno, anche uguale all’offesa ricevuta. Le radici di questo sistema sono antichissime, basti pensare alle leggi di Hammurabi, sovrano babilonese di quattromila anni fa, o alla più recente espressione “quel che è fatto è reso”.
Ora che cosa c’entri questo principio con il dibattito attuale è argomento che esula dalla nostra riflessione e attiene campi della conoscenza e delle scienze umane diversi dal nostro inserendosi nell’analisi a tutto campo dell’organizzazione sociale e delle sue degenerazioni. Tuttavia, il richiamarsi a soluzioni draconiane per problemi complessi è solo frutto della necessità di marcare il territorio, dare la sensazione di aver inciso nella vicenda nazionale, affrontando in modo semplicistico questioni serie e fondanti come il diritto alla giustizia. Gli intenti possono anche essere ragionevoli, ma rendere monco il sistema sottraendo ad esso elementi di equilibrio, è soltanto foriero di complicazioni e disastri futuri. L’impeto con il quale si sottolinea la necessità di eliminare uno strumento che viene usato spesso per dilazionare le decisioni giudiziarie, ma che costituisce allo stesso tempo uno stimolo per far camminare la giustizia ponendo un limite temporale al suo svolgersi, rischia di trasformarsi in quella chiara espressione latina che indica i rischi: summum ius, summa iniuria. Il pericolo cioè che ritenere di applicare il diritto senza conoscere la realtà possa creare le condizioni per la sua negazione.
Non vi è dubbio che il vocabolo prescrizione pur avendo una lunga tradizione nella prima e soprattutto nella seconda Repubblica, resti sempre attuale e con prepotenza si riaffacci nelle diatribe del governo giallorosso come prima in quello gialloverde.
Termine dai diversi valori, soprattutto giuridici, legato alla vigenza o meno di un diritto, al rispetto o meno di un termine temporale e così via. Accezione certamente prevalente ai nostri giorni per lo scenario che l’accompagna, la possibile estinzione di un diritto quando il titolare non lo eserciti per il tempo determinato dalla legge, e questo è il termine di prescrizione, che può avere durata e valori temporali specifici pur avendo di norma indicazioni complessive dalla legge. Può anche essere definita estintiva, e in questo caso si utilizza da sola senza spiegazione, quando produce l’estinzione del diritto; o presuntiva, quando è relativa a crediti (o debiti) sottoposti alla prescrizione ordinaria decennale, i quali si presumono estinti, salvo prova contraria, dopo trascorso un periodo prefissato dal momento in cui sono sorti.

Quel che più rileva in questa analisi è il significato che assume la prescrizione nel diritto penale, dove indica la possibile estinzione del diritto di punire (si dice del reato), che opera prima che sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna, o del diritto di applicare a una persona una determinata pena (ossia della pena), inflitta attraverso una sentenza irrevocabile, in conseguenza del decorso del tempo.
Ed è questo il punto nevralgico sul quale da decenni la nostra politica si avvolge e riavvolge a seconda delle forze politiche al governo e alla interpretazione che esse intendono dare alla legge. Appare infatti evidente il valore oggettivo della prescrizione, quando si verta in tema di lunghezza eccessiva dei procedimenti giudiziari e cioè quando il tempo trascorso senza decisione potrebbe portare persino alla negazione della giustizia stessa. Ed è questa la fattispecie diciamo così costituzionalmente positiva. Poi vi è un altra congerie di risultati pratici nei quali invece l’apposizione di un termine per l’esercizio di un diritto o per l’estinzione del diritto stesso o della possibilità di esercitarlo, conduce a degenerazioni non augurabili né accettabili.
Il nocciolo della questione, il vero nodo è sempre quello della funzionalità della amministrazione giudiziaria. Nella recente inaugurazione dell’anno giudiziario si è fatto riferimento proprio a questo snodo fondamentale. La prescrizione – nel suo significato più criticabile – può essere resa inefficace soltanto con un’applicazione della legge che rispetti doveri e diritti di chi giudica e di chi viene giudicato. Per ottenere questo risultato, dare giustizia in tempi certi sia nel riconoscimento dell’innocenza, sia in quello dell’applicazione della sanzione, occorre che il sistema sia efficiente, che le strutture non siano affaticate e oberate di compiti impropri, che il “palcoscenico”, inevitabile per il diritto all’informazione, non si trasformi in
protagonismi impropri di tutte le parti in causa. Prima di smantellare senza criterio istituti giuridici frutto dell’evoluzione della giurisprudenza e del diritto positivo è bene realizzare la primaria finalità della giustizia. Risolta la quale, il discorso dei termini temporali perde di efficacia e di valore. Tutto questo per ora resta nel campo dell’utopia. La realtà è davanti ai nostri occhi comprese le polemiche e i contrasti tra le forze politiche. La sostanza resta sullo sfondo!

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