Emergenza sanitaria e distrazioni di massa
Occorre sgombrare subito il campo da una prevedibile critica all’accostamento tra un problema grave e mondiale, quello provocato dal coronavirus, e l’emergenza necessaria per contenerne l’espansione, e la nostra attualità politica. Due livelli assolutamente incomparabili. Il primo afferente alla salute e al diritto insopprimibile alle cure, alla prevenzione, all’informazione puntuale sui rischi e sui sistemi da adottare anche in luoghi lontani dal focolaio che, nel mondo interconnesso di oggi, si può ritenere immanente ad ogni angolo del globo.
L’altro, relativo al dibattito, al confronto, allo scontro permanente in atto nella politica e nel paese per il quale ad ogni cambio del governo – non necessariamente conseguente al cambiamento di maggioranze parlamentari o di coalizioni come ben sappiamo – corrisponde un rovesciamento di ogni aspetto basilare della democrazia.
Da decenni discutiamo infatti di sistema elettorale, di come far votare gli italiani certi di indicare chi dovrà avere la responsabilità di governare o di fare opposizione, Insieme a questo interrogativo ontologico, torniamo sempre ad occuparci di quale sistema economico realizzare, di quale giustizia amministrare, di quale società vorremmo costruire.
E’ come se ad ogni passo in avanti se ne compissero due indietro. Illuminante in questo l’evidente divisione del paese tra nord e sud, come nel passato recente o remoto. Basta consultare un semplice trattato di sociologia di un secolo fa per trovare pur nella società del web, gli stessi temi, le stesse questioni e, soprattutto le stesse analisi politiche. Ora non vi è chi non si renda conto facilmente che parlare di società di fine ottocento o del primo dopoguerra o del mondo uscito dal secondo conflitto mondiale per spiegare l’oggi, sia un esercizio inutile e pericoloso in politica, più serio
nell’analisi storica.
Cercare allora di creare instabilità e tensione, laddove la politica dovrebbe costruire equilibrio e capacità di confronto e non di scontro perenne, costituisce parte del problema e non certo la soluzione. L’affannarsi a smontare quello che si è fatto prima in nome del ritorno ai grandi principi è illusorio e strumentale. La realtà muta continuamente e non è certo con strumenti di distrazione di massa che si trovano le soluzioni. Nella nostra quotidianità tornano a risuonare da troppo tempo espressioni come destra o sinistra, le destre, la sinistra, indicando con esse il male che deve essere combattuto ed estirpato. Ovvero l’esatto contrario di quanto occorrerebbe per costruire un paese equilibrato, democratico nella sostanza e dove doveri e diritti siano chiari e comprensibili a tutti. Una società di valori condivisi e che non sia dunque una società costruita sui valori ritenuti tali da qualcuno.
I germi di questa deriva sono direttamente correlati alla crisi endemica della politica nazionale nei suoi indicatori di base: i partiti. La fine di quelli tradizionali o storici, ha lasciato un vuoto che è inutile, illusorio e pericoloso pensare di riempire rifacendosi al passato, alle categorie trite e ritrite. La politica oltre che arte del possibile deve essere soprattutto strumento di rinnovamento delle coscienze, delle opportunità in cui far valere i principi che uniscono e non quelli che dividono. Ecco perché agitare paure dei “comunisti” da un lato, e il bisogno di dire “fermare le
destre” dall’altro sono altrettante espressioni vacue e senza responsabilità.
Immaginare un partito nuovo o un nuovo partito, partendo dalla contrapposizione a qualcosa e non dalla condivisione in primis dei valori fondanti dello stato democratico apre solo la strada alla solita confusione, alla solita contrapposizione e non solo contro l’avversario/nemico, ma anche all’interno della stessa area.
Ecco allora che non si cerca di risolvere i problemi dell’economia, delle
diseguaglianze sociali per se stesse, ma si deve ammantarle della patina ideologica pensando che questo costituisca un atout, un di più, contro la concezione dell’altro, quanto diversa nei fondamentali non è dato sapere. O ancora, si parla di diritti non per quello che essi sono ma in contrapposizione alla visione vera o presunta che l’avversario ne ha. Così come è forte la tentazione di brandire la Costituzione – che dovrebbe essere garanzia di tutti come arma per contrastare gli avversari e non per
applicarne i principi da tutti condivisi.
L’elenco è lunghissimo. Il paese ha bisogno di infrastrutture efficienti, di strutture adeguate alla civiltà del vivere e del lavorare. Ma quel che sentiamo è sempre il risultato non del lavoro per creare quelle condizioni ma della contrapposizione a qualcuno o a qualcosa. Così non si fa un passo avanti, non si immagina un sistema nuovo, al passo con le esigenze di oggi, ma si continua a girare in tondo. Al punto che viene anche il sospetto che nessuno capisca esattamente cosa servirebbe e che cosa occorrerebbe fare per creare quel sistema. Ed è in questa rarefatta assenza di chiarezza dove non si affrontano i problemi ma si continua a girare ad essi intorno pur infiorettando le possibili soluzioni, i possibili scenari che nessuno sembra conoscere, che i nodi restano lì, le questioni rimangono irrisolte, mentre ci si agita e ci si scontra in un agone che per i cittadini sembra sempre più avulso dalla realtà di tutti i giorni, da quei problemi che la grande politica dovrebbe considerare importanti e non minuzie, elementi di condivisione e non di consenso facile e transeunte. Ed ecco perché il grande agitarsi, il grande brandire temi e concetti appare per quello che è: distrazione di massa. I virus della politica insomma sono immanenti e dannosi così come quelli delle pandemie che come nel passato mettono a dura prova l’umanità.