Alea iacta est. Il dado è tratto, dicevano i latini intendendo con questa espressione il momento delle decisioni più gravi per una persona, per un paese.
Oggi, con l’incarico del presidente della Repubblica al professor Mario Draghi per tentare di formare un nuovo governo, cambia radicalmente il quadro della politica italiana e lo stesso sguardo alle istituzioni rappresentative.
Come si è arrivati a questo punto? Vi si è arrivati per una semplice precondizione pregiudiziale da parte della politica: l’incomunicabilità tra i suoi rappresentanti. La gravità della situazione emergenziale, la drammatica condizione economica e finanziaria del paese, il degradare della coesione sociale quale risultato delle altre due cause appena indicate, non hanno avuto da parte della politica una risposta di responsabilità. Veti, contro veti, antipatie contrapposte, distinguo, rigidità populiste, interessi locali e personali, ambizioni varie hanno impedito una sintesi politica all’altezza della situazione.
Dunque parliamo del termine scelto questa settimana. Si riferisce, ovviamente, all’essere incomunicabile, alla impossibilità di essere partecipato ad altri, alla sostanziale incapacità di entrare in comunicazione, in dialogo con l’altro. Il secondo significato è infatti quello di incapacità o impossibilità di comunicare con altri, o più spesso con tutti gli altri, di stabilire un rapporto vivo e profondo di conoscenza con sé stessi e con gli altri, da cui deriva un senso di solitudine e di isolamento: senso e concezione della vita che, fatti proprî da molta letteratura del Romanticismo e, più ancora, del primo Novecento (culminante in Italia nell’opera di L. Pirandello), confluiscono nel dopoguerra nel più ampio motivo dell’alienazione esistenziale, trovando anche espressione artistica nel cinema.
Un terzo possibile è quello, meno comune, ma calzante per il nostro riflettere con riferimento ad altri tipi di rapporto (di natura sociale, politica, ecc.), per indicare l’impossibilità di stabilire un dialogo tra parti contrapposte o comunque divergenti. Espressioni del dizionario che spiegano con pochi elementi dialettici la esatta fotografia della nostra situazione politica e parlamentare in questo gravissimo momento storico.
Tale incomunicabilità è tanto più pesante e gravida di conseguenze perché certifica plasticamente il fallimento di ogni tentativo di trovare stabilità al sistema italiano, dopo la fine della prima repubblica, la nascita mai avvenuta della seconda e il naufragio clamoroso di quella che poteva essere definita terza o seconda bis. Un fallimento storico dove nessuna forza politica, nessun movimento ha saputo identificare e interpretare o essere in grado di rappresentare il paese nel suo insieme e nelle molteplici sfaccettature delle quali è composto e che sono altrettanti elementi distintivi della nostra nazione, della nostra società.
La ricostruzione di questo sfacelo non sarà né facile, né semplice. Il terreno della politica, m anche della società è minato in modo pericoloso da divisioni, posizioni apodittiche fondate sulla sabbia, ostracismi e personalizzazioni. In modo semplice quello al quale assistiamo si potrebbe definire come sindrome del Titanic. Il grande transatlantico urtò l’iceberg che lo portò alla tragedia dell’affondamento perché privo del radar e per l’impossibilità dell’equipaggio di “vedere” l’ostacolo insormontabile che si stagliava a poca distanza dalla prua. E mentre questo avveniva l’incomunicabilità tra i ponti, la divisione e la discriminazione tra ricchi e poveri pose le basi della tragedia collettiva che si consumò tra le ghiacciate acque del nord dell’oceano.
La similitudine può apparire eccessiva, ma la realtà supera la fantasia potremmo dire. Da troppi decenni la politica e i suoi rappresentanti hanno condotto chi più chi meno il paese per i marosi dell’economia e della congiuntura internazionale senza chiarire a se stessi e soprattutto agli italiani la direzione da prendere, tra continue accelerazioni, frenate, ritorni, cancellazioni del prima e via dicendo in un profluvio di insensatezze e di incompiute che oggi si stagliano davanti al paese come uno spaventoso iceberg contro il quale si rischia di infrangersi senza ancore di salvezza. Quella montagna di ghiaccio oggi si chiama Recovery Plan e costituisce però, paradossalmente, l’ancora cui ci riferiamo per superare la crisi una volta sciolti i grandi nodi. La gestione di questo piano gigantesco di recupero non può e non deve essere terreno di scontro o di lotta per controllarne gli esiti, ma un elemento di stabilità e di chiarezza, un seme da far germogliare per rimettere il paese sulla strada della crescita, dello sviluppo e del benessere. Non esistono exit strategy, furbizie di movimento o di partito. Il destino dell’Italia è oggi nelle nostre mani e qualsiasi egoismo o partigianeria deve essere bandito e chiamato con il proprio nome: “crimine” contro il popolo italiano.