A più di cinque anni dall’accordo di Parigi, l’obiettivo di contenere l’aumento annuale della temperatura globale al di sotto di +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali diventa più complesso: tutte le implicazioni e le criticità del nuovo glossario climatico.
Aprendo l’homepage del browser Google Chrome, in basso, al centro, compare la frase “Carbon neutral dal 2007”. Approfondendo, si scopre che Google ha ottenuto questo risultato grazie alla compensazione di tutte le emissioni prodotte dalla sua fondazione e che, ora, si pone l’obiettivo di diventare “carbon free” entro il 2030.
Carbon neutral, carbon free, compensazione delle emissioni: questo vocabolario è sempre più in voga non solo nel mondo corporate, ma anche in quello istituzionale. Per comprenderlo appieno, però, è necessario fare un passo indietro.
Nel 2015 gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) sottoscrivono l’accordo di Parigi, il primo accordo internazionale vincolante a tema ambientale. L’obiettivo è quello di contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.
L’accordo si inserisce in un lungo e tortuoso percorso internazionale verso una maggiore consapevolezza dei temi ambientali, che, tra gli altri, vede protagonista anche la Fondazione Italiani. Insieme al New Policy Forum, la Fondazione organizza il Rome Symposium on Climate Change, cui partecipano i rappresentanti dei principali Paesi del mondo e che si rivela fondamentale per canalizzare la coesione di intenti ufficializzata con il COP 21, di poco successivo.
A distanza di più di cinque anni dall’accordo di Parigi, possiamo iniziare a tirare le somme di questo percorso.
L’accordo ha senz’altro permesso di raggiungere traguardi importanti. Primo, non trascurabile, è la resilienza politica, testimonianza tangibile dell’impegno istituzionale internazionale. Inoltre, ha reso accettabile parlare di contenimento dell’aumento di temperatura sotto la soglia di +1,5°C e di neutralità carbonica. Infine, ha scatenato un’importante transizione degli investimenti verso le energie rinnovabili.
Sotto altri aspetti, le falle sono evidenti. L’accordo non ha portato a un calo delle emissioni, che hanno invece continuato a crescere al ritmo di una tonnellata di CO2 all’anno. Non c’è stata nemmeno una diminuzione della temperatura terrestre: il 2020 è stato, secondo il programma UE Copernicus Climate Change Service, l’anno più caldo mai registrato. Dall’era pre-industriale, abbiamo visto un aumento di 1,25°C, e, solo tra il 2019 e il 2020, le temperature si sono alzate a livello globale di 0,4°C.
Nessun Paese nel mondo ha ancora raggiunto gli obiettivi dell’accordo di Parigi, secondo il Climate Change Performance Index delle ONG Germanwatch e del NewClimate Institute. Il progresso lento visibile ovunque non è, secondo gli esperti, compatibile con l’urgenza di arginare il surriscaldamento globale.
L’Unione europea, tutto sommato, non se la cava male. Grazie a un punteggio molto alto dovuto alla sua politica climatica, è infatti avanzata di sei posizioni fino al 16° posto, ben più avanti rispetto ad altri due principali Paesi emettitori, gli Stati Uniti e la Cina.
Dei numerosi accordi internazionali a tema ambientale, il più recente è quello che a dicembre 2019 stabilisce l’obiettivo di raggiungere entro il 2050 la neutralità carbonica. Questa innalza ulteriormente l’obiettivo sulle emissioni, stabilendo una riduzione del 60%, da conseguire entro il 2030. Un obiettivo senza dubbio ambizioso, se si considera che nel 2019 l’UE ha registrato una riduzione delle emissioni di gas serra del 24% rispetto ai livelli del 1990: un dato positivo, ma rappresentativo di quanto la strada sia ancora lunga.
Nonostante invece un notevole progresso sulle energie rinnovabili sia riscontrabile sia in Europa che in Italia, negli anni il nostro Paese non è spesso riuscito ad adeguarsi alle direttive europee sull’ambiente. Una dinamica che nel 2020 lo ha portato a essere tra i primi 20 Stati membri con il numero più elevato di infrazioni, pari a 85, di cui 6 relative all’inquinamento atmosferico.
L’Italia ha sottoscritto l’obiettivo europeo della neutralità carbonica entro il 2050. La strategia nazionale si basa su tre azioni principali: ridurre la domanda di energia, investire sulle energie rinnovabili e sull’idrogeno e potenziare le foreste per ottimizzare l’assorbimento di carbonio. L’impegno sul lungo termine, tuttavia, non sembra sufficiente per allinearsi agli obiettivi europei e globali.
Cosa comporta, allora, raggiungere la neutralità carbonica?
L’etichetta “carbon neutral”, o zero emissioni nette (“net zero”), sottintende che la quantità di CO2 emessa in atmosfera è uguale a quella rimossa dall’atmosfera. Visto che i due termini dell’equazione non sono pari in termini di sforzi per conseguirli, la soluzione è spesso quella di compensare le emissioni finanziando progetti sostenibili, come la protezione delle foreste tropicali o lo sviluppo di tecnologie di rimozione del carbonio dall’atmosfera.
Questa soluzione è detta compensazione carbonica (“carbon offsetting”) e comporta conseguenze problematiche: le aziende spesso la sfruttano per essere sempre più net e sempre meno zero, cioè per giustificare livelli sempre maggiori di emissioni grazie a un’equivalente compensazione carbonica.
È, in sostanza, un meccanismo che permette di acquistare una riduzione delle emissioni realizzata da qualcun altro e utilizzarla per ridurre il proprio impatto sul clima. Un sistema con più di una debolezza intrinseca: oltre a un perverso meccanismo economico, per cui chi ha una maggiore capacità di spesa può liberarsi del peso delle proprie azioni pagando perché altri ne assumano le conseguenze, la misurazione delle emissioni e delle relative compensazioni sono sempre approssimativi.
Pertanto, non è sempre detto che, pur pagando, si ottenga una compensazione completa delle proprie emissioni. È da considerare anche l’impossibilità pratica di un controllo sull’avvenuta compensazione: chi verifica che l’albero piantato compensi effettivamente la sua parte di emissioni e che non venga, invece, distrutto da un incendio e diventi fonte di ulteriori emissioni?
La compensazione carbonica comporta numerose altre debolezze. Per esempio, si basa spesso sui meccanismi di cattura e sequestro del carbonio nella vegetazione e nel terreno, che però hanno una capacità limitata che raramente viene presa in considerazione. Oppure, se diversamente conta sullo sviluppo di tecnologie di sequestro dall’atmosfera, ha la pecca di spostare l’attenzione sul futuro, verso soluzioni finora molto rischiose e non studiate abbastanza a fondo, e ritardare le azioni di riduzione delle emissioni che sarebbero invece da implementare quanto prima.
Nel primo caso, inoltre, non tiene conto nemmeno del fatto che l’assorbimento del carbonio è un ciclo biologico millenario e che la capacità totale delle soluzioni naturali è impegnata ad assorbire tutte le emissioni che abbiamo già causato. Le foreste, specialmente le più antiche, sono magazzini viventi di carbonio secolare: se vengono tagliate, il carbonio viene rilasciato in atmosfera e ci vogliono almeno cent’anni prima che venga ricatturato da nuove piante.
Senza contare che piantare alberi al solo scopo di assorbire le emissioni di CO2 è una minaccia alla biodiversità vegetale e animale e alla sicurezza alimentare delle popolazioni indigene.
Che fare allora? Il Climate Change Committee ha indicato una serie di azioni da implementare per perseguire nel modo corretto l’obiettivo della neutralità climatica, anche alla luce della pandemia. La strategia include incentivi alla digitalizzazione e alla diffusione dello smartworking e un ripensamento delle infrastrutture in favore di trasporto pubblico e mobilità sostenibile.
L’obiettivo è, infatti, quello della riduzione delle emissioni prima e della compensazione poi, quest’ultima da adottare unicamente come misura residuale. Solo un drastico calo dell’inquinamento atmosferico può portarci sulla giusta strada per raggiungere gli obiettivi internazionali.