La parola

Con-divisione

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Potrebbe apparire come un refuso, un andare a capo poi corretto sulla stessa riga dall’onnipresente e a volte vituperato correttore automatico. Ma non è così! Il trattino divisorio è voluto e convinto. È il tentativo di delineare l’immagine di una realtà, quella italiana che nessun evento positivo o negativo sembra capace di modificare: siamo un paese strutturalmente e quasi geneticamente incapace di avere una visione quanto meno da tutti accettata di cosa vogliamo essere e quindi di cosa saremo. E questo al netto di quello che da sempre si fa per dare un senso allo stare insieme ormai da oltre centocinquanta anni.

La narrazione storica, tranne qualche zona antitetica, appare unita nel suo insieme, ma è il paese inteso come popolo, come realtà locali, come retaggio di antiche storie, insomma quella che indichiamo come la “gente” a porci inevitabilmente di fronte ad un mosaico mai fermo e mai soddisfatto di sé stesso. Si dirà e si dice che la diversità sia alla base della nostra convivenza ed è un arricchimento per tutti. Ma basta chiedere ad uno straniero di media cultura qual’è l’immagine che ha dell’Italia, per rendersi conto che la confusione e il preassappochismo di cui noi siamo portatori produce soltanto da un lato triti e ritriti luoghi comuni, dall’altro la sensazione che i primi a non capire esattamente chi siamo, siamo proprio noi popolo italiano o quanto meno una stragrande maggioranza. Poi alla domanda diretta si risponde come osservavano i latini con l’espressione “coactus, sed volui”, ovvero costretto dalle circostanze, dall’evoluzione e via dicendo, ma voglio!

Questo è quello che ci contraddistingue. La divisione che passa non tra regione e regione, ma tra città e città, anzi tra quartiere, sestiere, basso e così via nell’inanellare come il particolare sia alla base del nostro stesso ragionare. Per fortuna da ormai un secolo e mezzo le contingenze della storia ci hanno posto in un dato quadrante della storia e volenti o nolenti ci consideriamo un paese ed un popolo. Ma ad ogni piè sospinto come dimostra il tifo sportivo – spesso esatta raffigurazione di chi siamo soprattutto nei momenti di tensione – riappare quella incapacità di guardare oltre il nostro orticello e di comprendere il senso dello stare insieme.

La parola che abbiamo scelto è indicata come nel titolo è dunque condivisione, sostantivo che deriva dall’omonimo verbo condividere. Con questo termine si indica in estrema sisntesi come fa il dizionario il fatto di dividere, spartire insieme con altri qualcosa. Forse risulta più comprensibile, nell’attuale spazio immateriale che è il web la definizione informatica che vuole la condivisione l’accesso e utilizzo contemporaneo a risorse comuni da parte di programmi o utenti diversi. In internet, quindi trasmissione e uso in comune di immagini, testi, video, e via dicendo. Ormai convinti assertori della rete, con il suo pieno e il suo vuoto, condividiamo ma certamente non sappiamo che cosa stiamo facendo realmente.

È la stessa condizione del nostro vivere insieme dove la divisione appare in ogni richiamo alla diversità di opinioni, sacrosanta, e anche nella sua derivata che è la partigianeria che quella diversità poi non vorrebbe o vedrebbe bene diminuita e marginalizzata. Una contraddizione evidente, palmare nella quale però sembriamo convivere benissimo come si usava dire “l’un contro l’altro armati”.

Sovente chi ci guarda da lontano non riesce a capire come facciamo a vivere insieme avendo nella nostra realtà nazionale situazioni, realtà che sembrano impossibili non da coniugare in una sintesi, ma da avvicinare. Se questo accade, poi, molto spesso, più di quanto sarebbe auspicabile, si verifica in territori che in una civile convivenza dovrebbero essere presidiati dalla legge quale interprete del comune sentire: ovvero nei fenomeni illegali, nella criminalità diffusa. Un substrato che risulta ineliminabile perché drammaticamente costituisce esso sì, pur nelle divisioni anche estreme, un dato di fatto “condiviso”.

Queste riflessioni potrebbero apparire molto pessimiste, ma sono soltanto estremamemte realiste. Siamo talmente così che in qualche modo la nostra presenza positiva negli altri paesi, dove facciamo parte sovente di molti strati sociali e culturali importanti, porta con sé questo substrato che appare contagioso per diversi territori e realtà sociali già di per sé fortemente segnati da comportamenti eccentrici rispetto a quello che dovrebbe essere il comune sentire.

Tornando al termine indicato, la sua separazione tra prefisso e sostantivo, fotografa perfettamente il nostro modo di vedere quel che ci circonda. E in un momento così difficile e tragico, di uscita da una stagione pandemica segnata da centinaia di migliaia di vittime e criticità di sistema, e da una guerra inaccettabile che ci riporta di colpo al secolo breve, quello delle negazioni degli altri, abbiamo manifestato proprio questa nostra condizione. I se e i ma, il causidico negare l’evidenza, la farisaica necessità di non toccare la realtà fingendo che così essa sia diversa o si annulli, rischiano di restituirci una società fuori fase, incapace di gestire sé stessa e il suo stesso modo di organizzarsi. E questo in una fase storica che richiede serietà estrema, realismo critico, condivisione di quello che riteniamo irrinunciabile per la nostra esistenza, mentre questo viene fatto strame in nome di logiche aberranti! Forse sarebbe opportuno meditare un po’ di più e parlare un po’ di meno. A tutti i livelli!   

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