Il 27 u.s. si è tenuta all’Istituto Sturzo la presentazione di un volume doppio edito da Armando Editore contenente due distinti lavori: “I mali della politica italiana”, con un’introduzione di Mauro Miccio, una raccolta dei pensieri di don Luigi Sturzo tratti da “Politica di questi anni. Consensi e critiche”, la sua opera maggiore (che consta di sei tomi), e, “Fuoriusciti”, una pièce de thèatre di Giovanni Grasso, in cui l’autore ricostruisce provocatoriamente la sua amicizia con Salvemini traendo spunto da una di lui approfondita ricerca sull’epistolario intercorso negli anni tra il “prete politico” e Gaetano Salvemini.
Una rilettura del pensiero di Sturzo, a confronto con il pensiero Salveminiano, rivolta oltre che al loro ricordo, all’attualità della loro critica politica, aperta e costruttiva, alla politica non solo italiana ma anche degli altri paesi.
La lettura delle due opere insieme mi ha condotto ad una rivisitazione del loro pensiero. Confesso infatti di avere sempre collegato Don Luigi Sturzo inesorabilmente al Partito Popolare prima, e alla Democrazia Cristiana poi. Così come Salvemini a “Giustizia e Libertà” e al Partito d’Azione.
Invero, il loro pensiero va molto oltre, e, per intenderlo a pieno si deve necessariamente, da un canto, contestualizzarlo nel periodo in cui era maturato – ovvero in un tempo in cui l’Italia, pur essendo una nazione cattolica per antonomasia, viveva forti fermenti laici e innovatori -, dall’altro, attualizzarlo ai nostri giorni – ovvero, alla luce dei mali odierni della politica interna e internazionale -.
Da un verso, Sturzo, che intuendo la piega che stava prendendo l’Italia, fondò – insieme a personaggi del calibro di Bertini, Longinotti, Grandi, Mauri, Schiavon, Vigorelli e Rodinò – il Partito Popolare, chiamando a raccolta gli italiani “liberi e forti” perché, in nome della libertà, della giustizia e del bene comune, mettessero in pratica i valori cristiani.
Dall’altro, Salvemini, storico, inizialmente impegnato politicamente nel partito socialista, che però sognava un partito liberalsocialista; il che l’ha portato ad aderire, prima a “Giustizia e Libertà”, poi al Partito d’Azione, in uno a Carlo Rosselli e Ernesto Rossi, suoi allievi.
D’altronde è innegabile che nel dopoguerra i politici del Partito Popolare siano confluiti nella DC; così come, al contempo e per converso, molti altri politici, pur avendo fermi e sinceri sentimenti cristiani, abbiano scelto di aderire ad altre formazioni politiche.
Due scelte diverse, comunque coerenti con il pensiero cristiano, ancora attuali.
Nella seconda rientra quella di Salvemini, il quale pur essendo stato sempre critico nei confronti della chiesa cattolica, non lo è mai stato nei confronti del cristianesimo, di cui è sempre stato un fermo sostenitore, in nome degli ideali appresi in età giovanile dal vangelo, e poi ritrovati nella dottrina sociale della chiesa.
Sturzo e Salvemini, prima, durante e dopo l’esilio, sono sempre stati certi che alla fin fine i loro ideali di libertà e di giustizia avrebbero prevalso.
E la storia ha dato loro ragione; almeno sino a quando il paese non è stato vittima, sia di ingerenze esterne, che di un graduale grave decadimento interno.
Fattori che hanno determinato la fine della c.d. prima repubblica.

L’attualità dell’opera di don Sturzo e di Salvemini sta nell’aver denunciato per primi e anzitempo “I mali della politica italiana”.
Particolarmente felice è stata pertanto l’intuizione di Giovanni Grasso che, nel mettere in luce il loro singolare rapporto amicale, ha dimostrato come i due, malgrado la diversità di pensiero, di fede e di scelta politica, condividessero quei valori primari, fondanti ogni società civile.
Dal loro epistolario emergono le affinità elettive che hanno portato il sacerdote e lo storico a condividere l’opposizione al fascismo e ad impegnarsi attivamente, sebbene in formazioni politiche diverse, in difesa della giustizia, della libertà, della democrazia e della buona politica.È su questo impegno che fondava sia la loro stima reciproca, che la loro sincera e lunga amicizia.
A questo proposito mi sovviene l’ultimo lavoro di Vito Mancuso, “La mente innamorata”, che parla di quella forma di amore particolare che si sostanzia in un pensiero superiore che prende e assorbe in modo assoluto alcuni uomini, i quali credono fermamente in qualcosa tanto da dedicarvisi anima e corpo, al punto da innamorarsene.
È quanto accaduto, sia a don Luigi Sturzo, che a Gaetano Salvemini; entrambi innamorati della giustizia e della libertà, e per questo amore, perseguitati e costretti all’esilio.
Un amore che traspare nel loro scambio epistolare, ma che è ancora più evidente nel loro impegno politico e sociale, e nella loro testimonianza di vita. Entrambi innamorati della politica come “arte del vivere insieme” piuttosto che come mezzo per arrivare al governo ottimale.
Venendo ai giorni d’oggi, il libro in cui sono riassunti i pensieri di don Luigi Sturzo e l’intuizione di Giovanni Grasso, in un momento in cui prevalgono il caos e lo sconcerto, offrono una chiave di rilettura utile a decifrare non solo il passato, ma anche il presente.
Viviamo infatti un tempo di democrazia affievolita nel quale i diritti dei singoli vengono sacrificati in nome di una scala di utilità marginale che va cambiando di giorno in giorno in nome dell’economia, della finanza e del mercato, anziché del bene comune.
La politica è in crisi e la gente va abituandosi a questa crisi come un fatto normale, quasi fosse inesorabile. La democrazia parlamentare deve passare necessariamente attraverso il voto; e questo ormai è convogliato verso i partiti piuttosto che verso i loro rappresentanti; e questi ultimi hanno perso ogni contatto con gli elettori.
Abbiamo già fatto cenno al declino della politica. A mio avviso dovuto ai gravi errori commessi sia dai politici e dai partiti che hanno inseguito il potere per il potere ed hanno finito con il degenerare, litigando più per una corretta ripartirsi del potere in base al peso specifico di ciascuno, che per il bene comune. A questo fenomeno se ne è poi aggiunto un altro: la sotto-ripartizione del potere tra le varie correnti all’interno dei partiti.
Così facendo i partiti sono andati mutando la propria natura e cultura di riferimento, sino a perdere la propria identità. Questo ha contribuito al fatto che dagli anni 90 in poi, anche a causa del mutato scenario geopolitico dopo il crollo del muro di Berlino, la situazione sia esplosa e si sia arrivati alla fine della c.d. prima repubblica, grazie ad una singolare rivoluzione anomala che è lecito definire giudiziaria.
Una rivoluzione non spontanea né di massa, che ha portato decisivamente alla fine dei vecchi partiti e all’assopimento della politica
Con la loro fine sono spariti pure i loro apparati organizzativi e le loro scuole di formazione.
Lo smantellamento delle scuole di partito ha poi impedito la formazione di una nuova classe politica dirigente.
È luogo comune dire che gran parte dell’attuale classe politica sia impreparata e inadeguata e che i cittadini abbiano maturato una profonda diffidenza nei confronti, sia della politica, che dei politici
Questi ultimi a loro volta non si presentato più al pubblico con un pensiero politico, ma si limitano ad inseguire il consenso, in base ai social e ai sondaggi di opinione.
Morte le ideologie, venute meno le idealità, i leader dei movimenti e dei partiti in campo inseguono solo il pensiero emozionale del giorno.
Maggioranze e minoranze, fedeli solo ai propri sondaggi, si scontrano manifestando atteggiamenti personalistici piuttosto che esponendo idee.
Domina l’incapacità all’ascolto, agonizza la cultura del dialogo, latita la benché minima attenzione al pensiero delle controparti. Il confronto è solo scontro.
Le decisioni vengono assunte solo in funzione dell’economia, del mercato, della finanza, o al massimo delle emergenze.
Approfondimento e studio delle questioni, compostezza e pacatezza nel prospettarle, sono modalità che hanno ceduto il passo alla rissa.
Questa a sua volta sta lacerando quel minimo di coesione sociale che esisteva e sta contaminando ogni settore del nostro paese.
Insulti ed invettive sono il pane quotidiano, non più solo dell’agone politico, ma di ogni tessuto sociale.
Dobbiamo chiederci a questo punto se ci sia ancor spazio “per fare politica in modo sensato, giusto e umano” rinunciando a questa violenza di usi e costumi quotidiani che ha segnato la nostra capacità di essere comunità pur nella diversità di idee e di opinioni.
Da ultimo è venuto il tempo dei tecnici prestati alla politica. Una scelta inevitabile, in taluni casi fortunata, ma che sottintende il fallimento della democrazia.
Chiudo evidenziando che le riflessioni che precedono hanno trovato ispirazione nel felice abbinamento del pensiero di don Sturzo a quello di Salvemini e conferma nell’incontro di presentazione del libro che li contiene. Incontro avvincente, coordinato da Giovanni Federico e introdotto dal Presidente dell’Istituto prof. Antonetti, al quale hanno partecipato Mons. Andrea Manto, Mauro Miccio, l’autore Giovanni Grasso, e molto marginalmente chi scrive, arricchito dalla magistrale recitazione di Luigi Diberti nella parte di Salvemini e di Antonello Fassari nella parte di don Luigi Sturzo.
Un’occasione per interrogarci se sia ancora possibile invertire la rotta, o se ci si debba invece rassegnare al modo corrente, non solo di fare politica, ma anche di vivere.
