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Rohingya: il popolo dimenticato

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"Displaced Rohingya people in Rakhine State (8280610831)" by Foreign and Commonwealth Office - Flickr. Licensed under OGL via Wikimedia Commons.Fuggono da una terra che non possono chiamare patria. Vagano a piedi per le foreste o sballottati dal mare su improvvisati barconi, alla ricerca di un fazzoletto di suolo che li possa accogliere. 

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Fuggono da una terra che non possono chiamare patria. Vagano a piedi per le foreste o sballottati dal mare su improvvisati barconi, alla ricerca di un fazzoletto di suolo che li possa accogliere. Speranza spesso vanificata dall’egoismo e dalla crudeltà delle nazioni che potrebbero accoglierli.
La tragedia dei Rohingya continua da anni, ma solo ora comincia a destare un minimo di interesse da parte della comunità internazionale. Sono state le fosse comuni trovate nei mesi scorsi tra le fittissime foreste al confine tra la Birmania e la Thailandia a muovere le coscienze delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani.
La filiale asiatica di Human Rights Watch ha parlato di oltre 130 ritrovamenti, dove sono stati rinvenuti i resti di centinaia di persone appartenenti alla comunità rohingya, popolo di religione musulmana che vive in una condizione di quasi apartheid nella zona occidentale della Birmania, ribattezzata dalla giunta militare Myanmar.
Il crudele regime totalitario che governa la nazione da sempre li osteggia, non riconoscendogli neppure il diritto di un documento d’identità. Ultimamente si è arrivati all’imposizione dell’obbligo di procreare al massimo due figli per coppia, per non parlare del divieto assoluto di possedere terra e abitazioni.
Una non vita, contraddistinta da privazioni e vessazioni, figlie dell’odio etnico provato da una parte della comunità buddista maggioritaria nel paese nei confronti della minoranza musulmana. Come spesso succede però le divergenze religiose sono solo il pretesto per la spartizione delle ricchezze di cui questa regione è ricchissima. Legname prezioso ma soprattutto risorse idriche, corsi d’acqua millenari destinati ad essere incanalati per la costruzione di centrali idroelettriche, devastando e destabilizzando un territorio tra i più fragili del pianeta. Sono gli interessi economici dunque a causare questi esodi forzati che stanno spingendo migliaia di essere umani nei sentieri della jungla o nei flutti del Mar delle Andamane.
Solo recentemente la politica dei respingimenti praticata da anni da Malesia, Thailandia, Indonesia ed Australia sembra cambiare direzione. Una svolta caldeggiata dall’OIM, l’Organizzazione mondiale per le Migrazioni che ha imposto, ai maggiori stati della regione, l’adozione di protocolli d’accoglienza indispensabili per mettere in salvo almeno una parte di questi disperati. Intenzioni che spesso rimangono sulla carta visto che i centri di assistenza sono stati predisposti in isolotti oppure proprio nel mezzo delle foreste.
L’ennesimo scandalo, consumato sulla pelle dei migranti nelle terre dell’Asia del sud come nel Mar Mediterraneo. A poco sembrano servire le parole di buona volontà pronunciate da Papa Francesco, una delle poche autorità morali del pianeta, che ha parlato del dovere di accoglienza nei confronti dei bisognosi. Un appello alle coscienze dei politici e dei cittadini che di questi tempi sembra però sopraffatto dal frastuono di egoismi e interessi di parte.

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::autore_::di Diego Grazioli::/autore_:: ::cck::620::/cck::

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