Nel 1947, la violenza dei comunisti italiani contro i profughi istriani
Arrivando alla stazione centrale di Bologna, al binario uno, troviamo una targa che riporta una storia sicuramente sconosciuta ai più anche se storicamente assai recente.
Il testo così recita:” Nel corso del 1947 da questa stazione passarono i convogli che portavano in Italia esuli istriani, fiumani e dalmati: italiani costretti ad abbandonare i loro luoghi dalla violenza del regime nazional-comunista jugoslavo e a pagare, vittime innocenti, il peso e la conseguenza della guerra d’aggressione intrapresa dal fascismo. Bologna seppe passare rapidamente da un atteggiamento di iniziale incomprensione a un’accoglienza che è nelle sue tradizioni, molti di quegli esuli facendo suoi cittadini. Oggi vuole ricordare quei momenti drammatici della storia nazionale. Bologna 1947-2007.”
Per chi ha i capelli bianchi la mente corre alla fine della Seconda guerra ed alla que-stione dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia, cedute alla allora Jugoslavia dai trattati di pace. Terre da sempre italiane abbandonate anche davanti all’avanzata delle truppe ju-goslave durante le ultime fasi della guerra e dalle atrocità dei miliziani del maresciallo Tito, ricordiamo tra tutte le foibe. Espropriati, dunque, delle loro case, del lavoro, delle loro tra-dizioni, per non citare tutte le violenze a cui erano stati sottoposti, ai profughi istriani e dalmati non rimaneva che la via della fuga e affrontare loro Odissea verso la Patria che doveva accoglierli.
In Italia, nonostante le gravi ferite post belliche, ci fu una mobilitazione generale per accoglierli al meglio, solo l’allora Partito comunista italiano fece una vera campagna di odio contro questi profughi italiani che li accoglievano, ovunque si recavano, con violente manifestazioni di puro odio.
Uomini, donne, vecchi e bambini che avevano solo una grave colpa: quella di fuggire dal “paradiso comunista” e demolire di fatto la propaganda dei partiti di sinistra che proprio nei Paesi dell’Est, ormai assoggettati all’allora Unione Sovietica, tanto da far pubblicare sull’Unità, organo del Pci, il 30 novembre del 1946 il seguente testo che oggi potrebbe tranquillamente appartenere al lessico attribuito a Matteo Salvini: “Ancora si parla di ‘pro-fughi’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delin-quenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà – e prosegue – né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi”.
A margine di queste farneticazioni giornalistiche, ricordiamo solo che a Pola, consi-derata una città operaia, ci furono oltre tremila partigiani in lotta contro i tedeschi dove però la maggioranza di costoro non era affatto comunista e questo per un partigiano “rosso” di allora era una grave colpa, forse anche peggio di essere un fascista.
Ma torniamo alla cronaca di quei fatti.
Il 16 dicembre del 1947 i profughi istriani partirono da Pola con quel poco che era loro consentito per imbarcarsi su due navi e raggiungere finalmente l’Italia.
Il primo porto a cui attraccarono fu Ancona, ma la felicità di essere ancora in patria venne ben presto disillusa dalla violenza con la quale vennero accolti sulle banchine del porto dalla militanza di sinistra fatta giungere apposta all’approdo delle navi.
Urla, sassi, minacce fisiche a chi fosse sceso, insomma una situazione tale che dovette intervenire l’esercito per difendere i profughi da questi esagitati.
Finalmente dopo ore di violenza questa umanità dolente riuscì a poter scendere dalle navi per essere trasportata in treno verso altre destinazioni.
Quando parliamo di treni, ricordiamo che erano in realtà vagoni merci con il conforto di un po’ di paglia e in queste condizioni, dopo un viaggio di due giorni, senza di generi di prima necessità, la prima destinazione fu Bologna il cui arrivo in stazione era previsto in-torno a mezzogiorno.
Affamati, con molti malati e soprattutto con tanti bambini bisognosi di tutto, la Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa allestirono lungo il marciapiede del binario dove sarebbe arrivato il treno, un lungo tavolo per rifocillare i profughi, ma poco prima che il treno entrasse in stazione, ecco che i sindacalisti dei ferrovieri CGIL e gli iscritti al PCI, incitarono i “compagni” a bloccare la stazione con uno sciopero improvviso se il treno dei “fascisti” si fosse fermato.
Lo spettacolo a cui i cronisti dovettero assistere fu ancora peggio di quello di Ancona.
Prima questi esaltati con le loro bandiere rosse si recarono verso il treno in arrivo ac-cogliendo i profughi a sassate, inneggiando a Tito e lanciando verso i vagoni verdura marcia, sassi e quant’altro, poi con una crudeltà senza pari gettarono in terra il latte destinato ai bambini insieme al cibo, all’acqua e indumenti per questi poveri italiani, il tutto tra urla e minacce verso questi poveri italiani.
Ancora leggiamo dall’Unità un articolo di Tommaso Giglio, futuro direttore dell’Espresso, dal titolo vergognosamente sarcastico: “Chissà dove finirà il treno dei fascisti?”, insomma un’azione, quella di Bologna, vissuta addirittura come una vittoria politica.
Il treno dovette così ripartire senza alcuna sosta per motivi di sicurezza alla volta di Parma dove ebbero un accoglienza più umana tanto da poter proseguire per La Spezia dove vennero alloggiati in una caserma.
Scrisse in quei giorni lo storico Guido Rumici: “Si trattò di un episodio nel quale la solidarietà nazionale venne meno per l’ignoranza dei veri motivi che avevano causato l’esodo di un intero popolo”.
Oggi sono passati tanti anni da quei fatti, molti degli attori di queste vicende sono passati a miglior vita, e per tanti ricordare episodi come questo può sembrare quasi ana-cronistico, o peggio, fonte ancora di odi repressi che andrebbero definitivamente seppelliti nelle pieghe della storia.
Tutto vero, ma fare i conti con la a storia, qualunque essa sia, è sempre un atto di maturità civile oltre che personale.
di Antonello Cannarozzo