Esiste la solitudine dell’uomo saggio, gratificato dai traguardi che raggiunge in sé stesso, e quella cercata da chi si sente a disagio nell’incoerente caos dei rapporti umani. E poi c’è la solitudine di tutti gli altri: quel male vorace, un vuoto che rimane sullo sfondo e consuma, a volte senza dare indizi su come possa essere colmato.
Essa a ragione è temuta, perché spesso blocca, restringe e infine spegne la possibilità di migliorare sé stessi con nuovi stimoli, dall’arte al contatto umano; impedisce di crescere mediante il condividere; e di essere ricordati tramite il tramandare.
Vista così, è un araldo della morte in vita, perché svuotando la seconda anticipa la prima. Una sorta di anticipazione di quella “livella” di cui parlava Antonio De Curtis, in arte Totò, nella sua ormai nota poesia vernacolare.
E’ stata addirittura utilizzata spesso come strumento di pressione sociale – si pensi all’esilio, alla privazione della libertà personale, o alla “damnatio memoriae” latina -.
Per altro verso la buona notizia è che in quest’epoca la solitudine viene riconosciuta come un male ingiusto e contrastata anche a livello normativo.
I provvedimenti che se ne occupano sono impegnati su vari fronti. Stigmatizzano ad esempio l’abbandono di soggetti deboli, il mobbing, le violazioni alla riservatezza di dati personali in grado di compromettere le relazioni sociali, il bullismo e le sue varianti tecnologiche, e tante altre situazioni. Oltre a provvedimenti repressivi, fioriscono anche i sostegni alle iniziative che danno corpo alla solidarietà predicata già dall’Articolo 2 della nostra Costituzione.
L’ultima frontiera nella guerra alla solitudine sembra essere stata innescata da … un panino.
Con uno scontro giurisprudenziale ai massimi livelli, il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione sono ingaggiate nello stabilire se i genitori, nell’interesse del minore, possono rifiutare il pasto fornito dal servizio scolastico e optare per l’autorefezione (fornendo al bambino un pasto autoconfezionato, da consumare comunque assieme agli altri bambini)
oppure no.
In particolare, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, premettendo che il “tempo mensa” è parte integrante del “tempo scuola”, rilevano che il primo condivide col secondo le caratteristiche educative, da intendersi come orientamento a un’alimentazione sana e alla fornitura della stessa. Ma soprattutto, almeno per quanto rileva per questa riflessione, affermano che a tale finalità educativa si affianca “quella di socializzazione che è tipica della consumazione del pasto «insieme», cioè in comunità … condividendo i cibi forniti dalla scuola, pur nel rispetto … delle esigenze individuali determinate da ragioni di salute o di religione. … il pasto non è un momento di incontro occasionale di consumatori di cibo, ma di socializzazione e condivisione (anche del cibo), in condizioni di uguaglianza, nell’ambito di un progetto formativo comune” (Sentenza n°20504/2019).
La decisione ribalta le conclusioni di una precedente pronuncia del Consiglio di Stato, che invece aveva ritenuto che non esistono “proporzionali ragioni inerenti quegli opposti interessi pubblici o generali” in grado di giustificare una compressione del diritto all’autorefezione” (Sentenza n°5156/2018); provvedimento del Giudice amministrativo che pure è stato richiamato da una ancor più recente Ordinanza del Tar Lazio, a dispetto della decisione della Cassazione.
Il Giudice deve decidere in base a quanto che gli viene chiesto, quindi nessun appunto è da muoversi ai magistrati; anche perché tanto di più potrebbe essere criticata la sintesi – qui più che semplificata – di una vicenda più complessa, che si protrae evidentemente da anni.
Ma la scena di due bambini che stando vicini mangiano due pietanze diverse, semplicemente non pare rientrare tra i mille volti più fatali, della tragedia che è la solitudine.
Altri scenari paiono ben più urgenti: ad esempio un bambino, che non può studiare perché inabile, malato o indigente; oppure un adulto, che sia disoccupato o così oberato di lavoro da raggiungere paradossalmente lo stesso effetto di deprivazione relazionale del primo.
O infine, gli anziani, che guardano la vita da lontano mentre se ne vanno senza riuscire a farsi sentire: con quegli occhi persi nel passato, sempre meno accesi e sempre più spaesati nel presente. Occhi che possono apparire sia testardi e duri, sia semplicemente ingenui; ma che, in ogni caso, sono così fragili e desiderosi di attenzione da far male al cuore.
Secondo dati Istat, in Italia la povertà relazionale è aumentata esponenzialmente.
Nonostante le iniziative che si muovono nella direzione giusta, esse spesso sono scollegate tra loro. In primo luogo, infatti, pare mancare la consapevolezza di avere contro un rischio sociale trasversale e onnipresente, che dovrebbe essere combattuto con una premessa concettuale e con un coordinamento comuni, come avviene per la cosiddetta “guerra” alla corruzione; in altri termini, una bussola per armonizzare gli interventi sui vari fronti.
In secondo luogo, la mancata individuazione di un obbiettivo sociale espresso impedisce di creare una scala di priorità con cui pre-valutare ogni questione; il che implica, come pare dimostrare il massiccio impegno giurisprudenziale, il rischio di consumare su aspetti di nicchia energie che invece andrebbero preservate per miglior causa.
Siamo impoveriti dallo sbiadirsi delle tradizioni aggregative territoriali e religiose; siamo collegati, ma sempre a distanza, da tecnologie che ci portano lontano lasciandoci sempre allo stesso punto; e siamo a corto di scintille che possano accendere quella pure immensa riserva di combustibile umano e relazionale che ognuno di noi ha dentro.
Il rischio è così alto, che non possiamo più permetterci di lasciare sullo sfondo il fenomeno generale che, come testimonia l’ormai noto “Hikikomori”, ha proprio nella discrezione e nel silenzio la sua arma e il suo sintomo più gravi.
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