Conservatore, difese le radici cristiane e la tradizione europea
Si dice che anche se gli uomini muoiono le loro idee restano ed è certamente il caso di Roger Scruton. Intellettuale raffinato e coltissimo che con grande profondità poteva affrontare temi di politica come di arte, di sociologia come di letteratura o di musica, dando sempre il meglio di se come gli è sempre stato riconosciuto anche dai suoi avversari tanto da essere definito dal New Yorker “il filosofo più influente al mondo”.
Ma Scruton aveva un difetto grande ed imperdonabile per quel progressismo alfiere del politically correct che lo ha perseguitato fino a pochi giorni prima di morire: era un conservatore e fiero di esserlo.
È morto domenica 12 gennaio dopo una breve, ma combattuta battaglia contro il cancro, aveva 75 anni e fino all’ultimo ha fatto sentire la sua presenza nel mondo intellettuale inglese e non solo.
Massimo interprete del conservatorismo anglosassone, era nato a Buslingsthorpe, nel nord dell’Inghilterra il 17 febbraio del 1944, ancora in piena guerra, da una famiglia della medio borghesia che gli permise di studiare a Cambridge. Soldi spesi bene se appena laureato, nel 1971, poco più che ventenne ebbe la sua prima cattedra al Birkbeck College di Londra e tre anni dopo fondò il prestigioso “Gruppo filosofico conservatore” al quale partecipò anche il futuro leader del partito conservatore: Margaret Thatcher.
Fedele alle lezioni dei suoi maestri Edmund Burke e Thomas Eliot, ha saputo interpretare il rigore del suo pensiero con una capacità rara; quello di saperlo diffondere con oltre 50 libri, di cui una ventina tradotti in italiano, migliaia di articoli e tanti convegni.
Per chi scrive, la morte di Scruton è una grave perdita non solo di un grande pensatore e divulgatore, ma è stato anche colui che ha difeso sempre la cultura e le radici cristiane dell’Europa con coraggio e senza compromessi, togliendo dalla sua vita ogni forma di velleitarismo pseudo reazionario, non indugiando mai le sue critiche sulle derive della società moderna che distrugge ogni testimonianza del passato e, dunque, della
civiltà.
A lui si deve aver utilizzato l’uso di un termine assai desueto di origine greca, oicofobia cioè la paura della propria casa o della propria famiglia, usando il termine in contesti politici e sociali riferendosi a coloro che ideologicamente rifiutano la propria cultura e elogiano acriticamente quella degli altri affermando: “l’esigenza di denigrare i costumi, la cultura e le istituzioni che sono identificabili come nostri”. Una netta contrapposizione con il pensiero conservatore da lui propugnato che ha proprio nella sua formazione la propria civiltà e la propria nazione inteso come comunità di persone che condividono gli stessi ideali e gli stessi valori.
Il termine venne usato la prima volta negli anni Ottanta per un fatto di cronaca locale destinato però a divenire un prodomo di ciò che sarebbe accaduto nei successive quarant’ anni: parliamo del caso di Ray Honeyford. Preside di una scuola di provincia inglese, si espresse contro il modello multiculturale che allora prendeva piede nel Paese e per questo venne licenziato in tronco.
Scruton prese le sue difese e subito venne anch’egli etichettato con il termine di razzista, un insulto che non si tolse mai di dosso.
Questa battaglia gli fece comprendere, come egli stesso ammise, di appartenere ad una minoranza culturale emarginata e denigrata dal quel progressismo da salotto, con il quale si sarebbe sempre scontrato difendendosi con la sua profonda cultura.
Sprezzato da una parte dell’establishment del Paese, assai influente tanto da fare e disfare carriere, Scruton rimase certamente un isolato, ma continuò il suo contributo all’estero contro il comunismo, in tempi non certo facili, al di là della Cortina di Ferro.
Un impegno che gli venne riconosciuto in seguito dopo la “caduta del Muro” dai governi dell’Est, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.
La sua morte non ha suscitato una grande risonanza sui media italiani, molti avranno pure detto: “Ma chi è costui?” e invece ci sarebbe da scrivere molto, ma non abbiamo lo spazio, vogliamo ricordare però solo ricordare la sua ultima e dolorosa battaglia.
Tre anni prima, il governo, tenuto dall’allora premier Theresa May, gli affidò l’incarico di membro della commissione del Governo “Building better, building beautiful”, un ruolo di prestigio che ben presto per lui si trasformò in un incubo.
Si fece circolare la notizia, estrapolata da alcune sue dichiarazioni, come un attacco al mondo ebraico e a George Soros. Bastò questo per essere ancora una volta accusato di razzismo e cacciato questa volta proprio dal suo stesso partito.
Si seppe solo dopo che era stato tutto un equivoco, ma ormai era troppo tardi.
L’anno successivo il cancro lo condusse alla morte, lasciandoci però il ricordo di un grande intellettuale e soprattutto di un uomo con il coraggio delle proprie idee.
Questa ultima amarezza gli fece dire pochi giorni prima di morire che: “Il mio 2018 è finito con una tempesta d’ odio, in risposta al mio incarico come presidente della nuova commissione, ma il nuovo anno è cominciato con più calma e spero che il Grande Inquisitore, alimentato dai social media, troverà un altro obiettivo”. Forse inconsciamente era il suo testamento spirituale.