“La montagna ha partorito un topolino”. E’ quello che è successo in Libano dove, dopo mesi di stallo e di proteste, il Parlamento ha designato un nuovo esecutivo guidato da Hassan Diab, ex ministro dell’istruzione e figura vicina al movimento Hezbollah, i miliziani sciiti diventati nell’ultimo decennio i veri padroni del Paese dei Cedri. Una nazione allo sbando, con un’economia asfittica dopo la svalutazione della moneta locale ed un livello di corruzione così endemico da aver spronato milioni di cittadini a scendere quotidianamente in piazza per reclamare riforme ed un cambio di passo da parte delle oligarche che da oltre mezzo secolo si spartiscono gli affari di quella che un tempo fu definita “la Svizzera del Levante”. In questo clima infuocato il nuovo esecutivo composto da 20 ministri, un terzo di meno rispetto ai precedenti governi, dovrà gestire una situazione difficilissima. Una decisione figlia più delle circostanze e dei nuovi rapporti di forza che della reale volontà di rompere con gli schemi del passato. Il governo Diab infatti è composto quasi esclusivamente da membri legati al movimento sciita Hezbollah, senza la partecipazione di esponenti politici espressione delle altre confessioni che connotano il Paese, cioè sunniti, cristiano-maroniti e drusi. Una scelta inevitabilmente destinata a riverberarsi sul clima sociale della nazione sconquassato dalle proteste degli scorsi mesi che hanno portato alle dimissione di Saad Hariri, il Premier filo-saudita accusato di aver contribuito alla crisi con posizioni troppo accomodanti verso le multinazionali straniere. Dietro la svolta che ha portato ad un esecutivo quasi monocolore, ci sono i venti dei conflitti che da un decennio stanno interessando la regione: dalla guerra civile siriana che ha fatto affluire in Libano milioni di profughi, relegati in campi d’accoglienza spesso privi delle più elementari condizioni di sopravvivenza, alle tensioni che stanno attraversando l’Iraq, altro paese composto da una realtà multietnica alle prese con un’ondata di proteste popolari. Ma e’ il secolare conflitto tra i due paesi che si contendono il predominio del mondo musulmano ad aver condizionato gli eventi. Iran ed Arabia Saudita sono ai ferri corti in diversi teatri regionali e l’uccisione effettuata da un drone americano di Qasem Soleimani, il vero stratega di Teheran negli scenari internazionali, ha forzato la mano per una conclusione della crisi politica libanese. La morte del generale, capo delle forze Al-Quds, unità responsabile delle operazioni all’estero del regime degli Ayatollah, ha fatto detonare una mina già carica. Il predominio territoriale dei filo-iraniani si percepisce appena usciti dallo scalo principale di Beirut, addobbato da un tripudio di bandiere gialle simbolo del movimento Hezbollah e gigantografie che inneggiano al loro leader Hassan Nasrallah, una figura controversa che ha più volte dichiarato che l’eliminazione d’Israele è il suo obiettivo principale. L’omicidio mirato del generale di Teheran ha dato forza a questo movimento estremista che ha deciso di dare una spallata allo stallo della situazione istituzionale libanese. Una scommessa che avrà delle conseguenze sui delicati equilibri instauratisi nell’area, con ripercussioni che potrebbero investire lo Stato Ebraico. L’esercito della Stella di Davide ha dichiarato lo stato di massima allerta lungo i confini settentrionali, e si è detto pronto a respingere un’eventuale offensiva a tutto campo da parte dei miliziani sciiti. A questo punto il vero punto interrogativo per evitare un’escalation della crisi è l’atteggiamento che terrà l’esercito di Beirut, dominato per anni dall’influenza cristiano-maronita, ma che negli ultimi tempi ha visto crescere in virtù del crescente peso demografico l’influenza sciita, una partita nella partita, che va ben aldilà della formazione del nuovo governo, nato debole e con problemi forti da risolvere.
Print