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La privacy al tempo del Coronavirus

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Le azioni di contrasto all’attuale emergenza sanitaria incidono sulla nostra vita; alcune di esse cambiano anche il destino dei nostri dati personali, a volte in modo giustificato, altre volte no.

Secondo il Regolamento (UE) n°679/2016 (RGPD, GDPR o Regolamento per la protezione dei dati personali) si possono trattare dati personali di persone fisiche se esiste una giustificazione che rende tale trattamento lecito.

Oggi, gli operatori delle forze dell’ordine hanno il potere di chiedere conto ai cittadini delle ragioni dei loro spostamenti. Parliamo di dati anche appartenenti a categorie particolari (già noti come “dati sensibili”); tuttavia la finalità è di pubblico interesse, e per di più connessa alla tutela della salute generale – d’altronde in assenza di vaccino l’unica arma è interrompere la catena di contagi -, quindi il trattamento trova in ciò la sua giustificazione.

 Un’ulteriore comunicazione, per la quale può valere la riflessione subito sopra, è quella richiesta dalle Regioni ai visitatori in ingresso.

Ai cittadini che accusano dei sintomi è richiesto di non muoversi ma di contattare i recapiti preposti, e fornire una nutrita serie di informazioni personali per consentire la valutazione e la migliore gestione del caso (tra i tanti provvedimenti di indirizzo di questi giorni, si può vedere la Circolare del Ministero della Salute n°5443/2020). In questo caso, non solo è corretto che gli operatori sanitari pongano le domande, ma il cittadino ha tutto l’interesse a che le sue risposte siano esaurienti e ben comprese: la liceità del trattamento, anche ove fosse ritenuto necessario interrogarsi al riguardo, è di certo presente.

Diverso è invece il caso, rilevato dal Garante per la protezione dei dati personali, in cui dei soggetti pubblici e privati si sono dimostrati intenzionati a raccogliere, “all’atto della registrazione di visitatori e utenti, informazioni circa la presenza di sintomi da Coronavirus e notizie sugli ultimi spostamenti, come misura di prevenzione dal contagio”, oppure ad “acquisire un’autodichiarazione da parte dei dipendenti in ordine all’assenza di sintomi influenzali, e vicende relative alla sfera privata” (Garante per la protezione dei dati personali, Comunicato stampa 2 marzo 2020, Docweb n. 9282117).

Le ragioni per cui tale trattamento non è stato ritenuto lecito sono varie.

In primo luogo, solo i soggetti già indicati (e autorizzati) dalle norme hanno le competenze e i poteri necessari per gestire in modo utile queste informazioni.

In secondo luogo, ogni cittadino ha già di per sé l’obbligo diretto di segnalare sintomi o provenienza dalle zone ad alta limitazione; quindi non esiste alcuna lacuna che i datori di lavoro o i gestori di aree visitate abbiano il dovere di colmare.

Anzi: un soggetto che ometta consapevolmente di segnalare il proprio stato, contravvenendo al divieto di uscire di casa da sintomatico e visitando altri luoghi, è già soggetto a sanzioni e responsabilità ben più concrete e dirette di quelle a cui sarebbe vincolato per l’effetto di queste autodichiarazioni.

Tra l’altro, la raccolta “fai da te” comporta anche un accollo di obblighi per chi la esegue, quali ad esempio quello di inoltro e segnalazione, e in definitiva il sorgere di rischi di errata interpretazione e gestione delle risposte ottenute (si pensi al mancato inoltro dei dati ricevuti in caso di dati rilevanti, o viceversa all’inutile inoltro di dati invece non rilevanti).

In sintesi, solo i soggetti individuati dalla normativa sono autorizzati a raccogliere e a gestire i dati, specialmente quelli sensibili, connessi all’emergenza sanitaria.

Attenzione, però, a pensare che essi lo possano fare senza regole.

Anche nei casi in cui fornire i nostri dati è un atto spontaneo o obbligatorio, ciascuno di noi ha il diritto di poter conoscere almeno: 1) dove andranno questi dati; 2) quali categorie di soggetti ne potranno venire anche solo a conoscenza; 3) come verranno stoccati e per quanto tempo verranno conservati. Se è giusto che l’attenzione primaria spetti all’aspetto sanitario, è altrettanto giusto che al termine della lotta al COVID-19 non rimangano masse relitte di dati sensibili, a certificare la negazione di quel diritto alla riservatezza che può e deve venir compresso solo finché perdurino esigenze giustificabili.

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