Cronaca

Tutti a casa

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Questa frase evocava un film del 1960 interpretato da Alberto Sordi : quando la radio l’8 settembre 1943  annuncia l’armistizio, scoppia tra i soldati italiani un entusiasmo per la guerra finita ed esplode  l’urlo  festante “La  guerra è finita, tutti a casa!“. 

“Tutti a casa” simboleggia  un  urlo di gioia che pone fine alla nostalgia della casa lontana.

Di recente la stessa frase è risuonata nelle orecchie di tutti gli italiani,  non più come urlo di gioia, ma come voce di comando: ordine di ritornare a casa  e stare rinchiusi.

Al solo sentir quelle parole  la popolazione  atterrisce e vede andare a monte tutti i numerosi  programmi  organizzati.

Lo studente, che aveva trascorso giorni e giorni per prepararsi l’esame all’università, salta la sessione e chissà quando verrà il giorno in cui potrà sostenerlo.

Lo stesso universitario che dalla provincia si è recato a Roma (o a Milano) per studiare, rientra al paese e abbandona la camera che aveva preso in affitto, lasciando in ambascia la anziana  padrona di casa, la quale, leggendo in rete, apprende  che lo studente può risolvere il contratto per giusta causa e dovrà rinunciare al canone mensile cui faceva affidamento per arrotondare l’esiguo importo della propria pensione.

Chi aveva già diramato gli inviti a parenti e amici per festeggiare il compleanno, dovrà purtroppo  disdire.

Pensate agli innamorati: prima eccitati per le loro nozze e ora addolorati poiché non sanno quanto tempo dovranno aspettare per  coronare il loro sogno d’amore.

E che dire degli anziani? Secondo lo scrittore inglese Jonathan Coe,  “Le case dei vecchi hanno un odore particolare. Niente di poco pulito, voglio dire, soltanto che spesso si sente l’odore dei ricordi, di porte rimaste chiuse per molto tempo, una sorta d’intimità pesante e nostalgica, che può risultare soffocante e opprimente”. Pertanto ai vecchi è negata ogni evasione, e sono costretti  a restare imprigionati in quella  atmosfera soffocante e opprimente. Condannati alla solitudine.

Nelle grandi città molti sono costretti a vivere in case di dimensioni ridotte (monocamere, bicamere), spesso riunendosi in più per dividere le spese di affitto, sicché  l’abitazione  è un luogo destinato soprattutto a dormire: la vita si svolge per lo più altrove nei luoghi di lavoro, nei posti di ristoro .

E non parliamo delle scuole, dove tutti gli alunni (di qualsiasi ceto sociale) apprendono in assoluta parità.

“Tutti a casa!, tanto le lezioni si impartiscono on line”.

 Ben detto! Ma tutte le famiglie (specie quelle del ceto operaio) possono permettersi l’acquisto di un computer? O i tanti altri che vivono le difficoltà soggettive più disparate che non trovano lavoro per una retribuzione superiore ai mille euro mensili, possono permetterselo? Ed ancora se i figli in famiglia sono più di uno, come fanno a seguire le lezioni di diversi insegnanti nella stessa ora?  Non tutte le famiglie hanno in casa più di un computer.

“Tutti a casa”  non è uguale per tutti. Porta a far nascere una discriminazione sociale  riproponendo la distinzione tra ricchi e poveri, che la nostra società riteneva fosse un retaggio del passato.    

È arrivato  un virus che a noi, illusi di aver raggiunto l’uguaglianza in tutto, fa ritornare le discriminazioni all’interno di un società e ancor più tra i popoli con il ritorno alle frontiere internazionali, vietando e condizionando l’ingresso a chi è straniero e i traffici internazionali.

E all’interno niente strette di mano, né tantomeno abbracci, baci; tutti a distanza!

È finita la comunità, si vive ciascuno per proprio conto: vietato riunirsi, conversare, a meno che non avvenga a distanza in teleconferenza. Ognuno resta rinchiuso nel proprio guscio, a comunicare solo dietro uno schermo.

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