I cittadini non sono sudditi riottosi, tweet e bozze di decreti non sono la risposta migliore
L’emergenza sanitaria per la pandemia è un dato incontrovertibile, così come la necessità delle misure opportune per contenere il contagio e riuscire a sconfiggere il virus che sta mutando il nostro modo di vivere e quello di tutta l’umanità. Mai come in questo caso la globalizzazione dà la misura di quanto è accaduto. Non solo quella economica e finanziaria al centro spesso di polemiche e critiche, ma quella umana che vede la stragrande maggioranza dell’umanità poter usufruire di spostamenti nel pianeta a velocità mai conosciute in passato con il conseguente melting pot crescente in tutti i paesi e la possibilità di incontro, di incrocio e, come si avverte in queste settimane, di contagio.
Ma, come nell’antichità, alle prese con una minaccia globale, invisibile ed insidiosa, la reazione primaria è quella di rinchiudersi in se stessi, di chiudersi nelle proprie mura, di allontanarsi dagli altri e di vedere il mondo là fuori come una minaccia alla propria salute, alla propria vita e via dicendo. E come abbiamo sottolineato in un’altra occasione è la paura, a volte la sindrome più pesante del panico, che guida a livello corticale ognuno di noi, un riflesso condizionato ancestrale, primitivo, non facilmente governabile. Ecco però il perché di quello che sta accadendo: la progressiva presa d’atto della minaccia e delle sue forme e la convinzione di stare in casa, di non avere contatti si coniuga con questa pulsione primigenia e ci fa isolare nella speranza che passi la nottata.
Tutto questo, ovviamente, non riguarda coloro che per istituto e per necessità, non possono abbandonare il proprio posto di lavoro, la propria attività. Parliamo in primis dei medici, degli infermieri, del personale sanitario in genere che si trova in prima linea in una vera e propria guerra contro il tempo e che pur consapevole del rischio continua la sua opera insostituibile, coraggiosa ed eroica. Parliamo delle forze dell’ordine alle quali è demandato il difficile compito di far rispettare le norme e i divieti che l’emergenza porta con sé e che cozzano con i diritti fondamentali che vediamo limitati o impediti. Parliamo di tutti coloro che devono garantire, pur al minimo, i servizi essenziali necessari alla vita delle persone, alla loro sicurezza, alla garanzia di una socialità pur ridotta e modificata come mai in passato.
Tutto dunque comprensibile, tutto condivisibile. Certamente questa è la prima risposta. Non è però possibile sottrarsi anche ad una serie di interrogativi e di domande. In queste settimane, e nel loro probabile prolungamento, accade e sta accadendo qualcosa con la quale è opportuno misurarsi e che sta modificando il nostro modo di essere. Una paese indisciplinato, fatto di individualismi ed egoismi, si trova improvvisamente a fare i conti con una condivisione forzata, con una solidarietà necessaria, a distanza peraltro. Con una presenza cogente ed invasiva dello Stato e delle sue strutture. Quello stesso Stato che tutti considerano assente o non all’altezza nella vita normale. Per qualcuno questo momento farà rafforzare il nostro legame nazionale, per altri esaspererà i particolarismi. Gli avvenimenti, pochi e casuali di questi giorni particolari, mostrano che entrambe le possibilità sono davanti a noi.
Se da un punto di vista sociologico, per così dire, ci spostiamo però su un piano giuridico, ecco che ci misuriamo con qualcosa di nuovo, il cui unico precedente, con le dovute differenze del caso, fu l’emergenza terrorismo tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Parliamo della compressione e della limitazione dei diritti fondamentali dei cittadini. Quelli indicati nell’art. 2 della Costituzione in cui “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. O quelli previsti all’art. 16, secondo il quale “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Non ultimo l’art 21, che sancisce “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Un’insieme di diritti che, nel volgere di poche settimane, appaiono quanto meno un “lusso” che non ci si può permettere in relazione alla necessità primaria di garantire la salute pubblica. Lo stato di emergenza stabilito con decreto dal Governo ha infatti letteralmente “chiuso” il paese in casa, per il rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili. Un’ordinanza emessa nell’esercizio dei poteri in materia di protezione civile previsti dal D.lgs 2 gennaio 2018, n.1 (Codice della protezione civile), che, all’articolo 24 disciplina lo “stato di emergenza di rilievo nazionale”. Nel caso specifico, l’intervento era giustificato dalla più grave delle ipotesi previste e precisamente da quella di cui alla lettera c) «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24».
Siamo ora al terzo decreto che prevede e rafforza le limitazioni iniziali e inasprisce sanzioni e mezzi per ottenere il rispetto delle prescrizioni con le sole esenzioni dei servizi destinati ai consumi essenziali per l’alimentazione, la cura della persona, le attività professionali e il diritto all’informazione (edicole). E’ stato osservato che “la nostra legislazione ha previsto in passato e prevede tuttora misure restrittive, di isolamento e di controllo, per malattie anche gravi (oggi in gran parte eliminate) come vaiolo, colera, malattie trasmissibili sessualmente (in passato sifilide, oggi Aids), trattamenti sanitari obbligatori in psichiatria, per finire con le vaccinazioni obbligatorie. Tutte, in varia misura, incidenti su diritti di rilevanza costituzionale. Limitazioni che però riguardavano solo i soggetti colpiti da queste patologie e non certo il resto della collettività. Questa volta è diverso. Per la prima volta, le misure di tutela riguardano tutto il territorio nazionale e tutta la popolazione italiana. Un caso unico nella storia sanitaria del Paese”che porta con sé anche la conseguenza che la tutela della salute collettiva è esigenza prevalente sull’esercizio di diritti costituzionali e anch’essa garantita dalla Costituzione quale diritto in primis dell’individuo.
Allora, si potrebbe dire, qual è il punto? Se tutto va nel verso giusto? Il punto è a suo modo chiaro e semplice: le limitazioni imposte dall’autorità sono opportune e necessarie, ma per bloccare i diritti costituzionali nei fatti occorre il più largo consenso del Paese, quel consenso che si esprime plasticamente nel luogo dove la sovranità del popolo si fonda, il Parlamento. Quel Parlamento al quale il Governo deve riferire e che deve mettere in condizione di sostenere, mitigare, ampliare le misure. Se la politica è silente, intimidita dal virus, è il Parlamento che deve rappresentare la nazione. Ora la legge stabilisce che in casi come quello che viviamo il Governo informi immediatamente le Camere, un minuto dopo che le misure cogenti siano state stabilite a tutela di tutti. Siamo però al terzo decreto e il Parlamento non è stato compiutamente posto in condizioni di operare e convertire quelle stesse norme entro i sessanta giorni previsti per la decretazione d’urgenza, neppure nel primo caso.
Tutto si può fare, tutto si può rimediare, ma sarebbe opportuno che l’esecutivo non dimentichi che la sovranità nazionale appartiene al popolo. E che non si governa con tweet o con fughe di notizie sul web, pur ammettendo che le intenzioni siano le migliori. In tema di diritti costituzionali la forma vale quanto la sostanza! Un’ultima considerazione riguarda l’informazione. Lasciare aperte le edicole ma condizionare burocraticamente i movimenti di chi deve informare, pur con il rischio personale per la salute, rischia di creare un corto circuito ulteriore sul terreno delicatissimo della democrazia sostanziale! I cittadini non vanno trattati come sudditi riottosi, ma come consapevoli artefici del comune destino. Vanno convinti non repressi. A parte ovviamente quella frazione minima di “fuorilegge” per furbizia o atavico ribellismo. Ma questa è un’altra storia!