Cronaca

Il Coronavirus in Scandinavia

• Bookmarks: 16


Ho sentito paragonare questi giorni ai tempi di guerra. Anche se sono ormai quasi due mesi che siamo reclusi, scalpitiamo e attendiamo con ansia la liberazione. Non scherziamo. I nostri padri e nonni che l’hanno vissuta sulla loro pelle ne sanno qualcosa. Noi siamo stati semplicemente forzatamente messi in sicurezza. E se ci sono voluti provvedimenti legislativi e misure costrittive per far sì che lo capissimo, è dipeso in buona parte dal difficile rapporto che noi abbiamo con le istituzioni; e le istituzioni hanno con noi.

Dove tale rapporto è meno tormentato, come ad esempio in Svezia, Norvegia, Danimarca, le cose sono andate diversamente.

Sono particolarmente legato alla Scandinavia dove ho molti amici che ho sentito in questi giorni. Li ho trovati poco preoccupati e positivamente determinati. In Svezia il governo ha dato direttive lasciando la tutela sanitaria al buon senso dei cittadini, che si è spontaneamente autolimitata. La Norvegia ha fatto tamponi, imposto misure di contenimento, ma seguendo gli insegnamenti di Plinio Il Vecchio cum grano salis. Tutti hanno fatto affidamento soprattutto sul senso di responsabilità e la coscienza civica. In Danimarca, idem.

Nei fatti, non credo gli italiani siano stati da meno, e credo che lo dimostreranno chiaramente proprio nei prossimi giorni in cui le restrizioni imposte verranno allentate e i nostri concittaditi saranno chioamati a confrontarsi con la semilibertà, l’urgenza di riprendere e la necessità di difendersi dal male persistente.

Mi sovviene un messaggio WhatsApp, l’ennesimo, divenuto “viral” nei giorni scorsi.

Lo scrittore svedese Fredrik Sjöberg paragona giustappunto il diverso atteggiamento nostro e quello del suo Paese nei confronti della pandemia dilagante: “Amo il sole della primavera italiana. Perciò avevo accettato di partecipare a tre festival letterari: Milano a marzo, Venezia ad aprile, e poi Udine verso l’estate. Invece sono finito qui, in isolamento volontario, su un’isola nell’arcipelago di Stoccolma. Non perché debba, ma perché voglio. Ho una bella scorta di legna, e posso andare a far la spesa all’emporio come al solito. Certo, oggi sta nevicando, ma la primavera arriverà anche qui. Tutti stanno facendo la stessa domanda: perché il governo svedese non combatte la pandemia di coronavirus come fanno gli altri? Perché non introduce restrizioni e controlli? Quasi tutti i ragazzi continuano ad andare a scuola. Persino gli asili sono aperti. Possiamo ancora viaggiare come ci pare, o andare al pub se ce ne viene voglia, e anche se il divieto di assembramenti, da un massimo di 500 persone, è stato di recente abbassato a 50, ci sono enormi differenze rispetto al resto d’Europa. Saremo forse degli ingenui? Oppure questa bizzarra strategia è spiegabile in altri modi? Lasciate che ci provi.
In fin dei conti, il modello svedese si basa sulla fiducia. In generale, gli svedesi hanno fiducia gli uni degli altri, e nelle istituzioni: seguiamo volentieri consigli e raccomandazioni, specialmente se il primo ministro, e magari anche il re, alzano la voce. Lavatevi le mani! Non spostatevi se non è indispensabile! Proteggete gli anziani! E fintanto che questa fiducia funziona, i divieti non sono necessari. Questa fiducia rappresenta un ingente capitale, proprio come le finanze dello Stato, in parte perché nel nostro Paese la corruzione è cosa rara. Anche qui c’è stata la deregolamentazione di alcuni mercati, ma lo Stato continua a essere stabile. Anche qui ci sono delle voci critiche che temono il collasso, ma per ora si va avanti.
Inoltre, le istituzioni svedesi godono di una peculiare indipendenza. Nel nostro assetto statale, di antica tradizione, un ministro non può mettersi a fare il bello e il cattivo tempo quando l’opinione del momento pretende le maniere forti. La responsabilità operativa appartiene alle istituzioni, e al momento è l’Istituto di salute pubblica a dirigere le danze. Un epidemiologo finora sconosciuto, un grigio impiegato statale in maglioncino, tiene quotidianamente una conferenza stampa per spiegare la situazione. Il governo segue a sua volta le raccomandazioni delle istituzioni. Un direttore generale se possibile ancor più grigio non fa che ripetere che dobbiamo guadagnare tempo. Se tutti si ammalano contemporaneamente il sistema sanitario collasserà. Più o meno tutti recepiscono il messaggio. Rimane da scegliere una strategia opportuna per appiattire il grafico dei contagi. Finora la situazione è identica in ogni Paese; la differenza è che la Svezia preferisce la libertà di scelta alle costrizioni. Si valuta che sia la strada più efficace, soprattutto pensando alle prossime settimane. O mesi.
All’inizio dell’epidemia vi fu chi chiese di chiudere tutte le scuole, come negli altri Paesi. Ma l’Istituto di salute pubblica valutò che i pro, in termini di minori contagi, non avrebbero superato i contro, in termini di carenza di personale nelle strutture sanitarie. In Svezia non ci sono molte casalinghe; quasi tutti lavorano, uomini e donne, e queste ultime sono preponderanti nella sanità. Chiudendo le scuole, si è pensato, molte infermiere sarebbero rimaste a casa coi figli. Inoltre, si è immaginato che i ragazzi si sarebbero incontrati comunque, scambiandosi il virus, anche con le scuole chiuse.
Gli studenti più grandi e gli universitari possono seguire le lezioni a distanza senza troppi problemi, così in quel caso si è deciso di chiudere. I pro superano i contro: semplice matematica, che la gente capisce.
Tempo, è tutta una questione di tempo. Alla fine della guerra fredda, quando i neoliberisti avevano il mondo in pugno, i depositi di emergenza svedesi vennero smantellati, dunque anche noi siamo a corto di dispositivi di protezione e di respiratori, non solo di personale sanitario. Ma anche in tal caso interviene la fiducia. Confidiamo semplicemente che l’industria svedese sappia riorganizzarsi rapidamente e produrre quel che manca. Ed è quel che sta succedendo proprio ora.
Che Viktor Orbán dichiari lo stato d’emergenza non sorprende, probabilmente stava aspettando un’occasione simile, e forse sarà necessario ricorrere a misure altrettanto draconiane anche in Francia, Spagna e Italia, ma per molti aspetti la Svezia è diversa. Certo, potremmo anche noi mettere tutta Stoccolma in quarantena e mandare l’esercito a presidiare le vie d’uscita, o fare come i tedeschi e vietare gli assembramenti di più di due persone, ma qui da noi lasciare libertà di scelta funziona meglio. I vaccini per le malattie infantili, per esempio, sono sempre stati volontari. Eppure la Svezia è in cima alla classifica: non perché dobbiamo, ma perché vogliamo.
Va anche detto che la Svezia è un Paese omogeneo, dominato da una nutrita classe media benestante, le cui virtù possono essere fatte risalire al proletariato secolarizzato del dopoguerra e a vari movimenti popolari più o meno puritani. Ovvio, anche noi dobbiamo gestire certi ricchi viziati che reputano la settimana bianca più importante di ogni forma di solidarietà e, negli ultimi tempi, un sottoproletariato d’importazione, extraeuropeo, tra cui la povertà e l’affollamento delle abitazioni favorisce il contagio, ma si tratta di fenomeni marginali.
Gli svedesi sono in vasta maggioranza disciplinati, e io sono uno di loro. Nessuno mi vieta di andare a trovare mia madre di 95 anni, che abita in una regione dove i contagi non hanno ancora raggiunto numeri significativi, ma siccome mi si raccomanda di evitare gli spostamenti non lo faccio. Quasi tutti fanno valutazioni simili. E i risultati si vedono. Sappiamo che il contrasto all’epidemia è una questione di equilibrio, tra salute ed economia, e ci fidiamo più di altri dei nostri burocrati.
Forse, mi viene da pensare, c’entra anche il fatto che la Svezia è uno Stato nazionale antichissimo. Lo so, nella nostra epoca il nazionalismo è un flagello, ma il fatto è che la Svezia esisteva già nel medioevo, e credo che le radici della fiducia affondino fin là. Che noi svedesi siamo ingenui perché ci siamo tenuti fuori dalle guerre mondiali del Novecento non mi convince. Le tradizioni vanno ben più indietro nel tempo.
Tra l’altro, siamo più patriottici che nazionalisti. È una distinzione importante. George Orwell ha scritto una volta, nel 1945, che il patriottismo nasce dall’amore per un certo luogo e per la vita che vi si conduce, ma che non cova mai dentro di sé il desiderio di imporre lo stesso stile di vita agli altri. Di conseguenza, il patriottismo è difensivo e pacifico. Il nazionalismo, invece, che è legato al desiderio di potere politico, può facilmente imboccare la via sbagliata.
Le cose stanno più o meno così. Facciamo quel che possiamo, a modo nostro, al tempo della peste.
Un anno fa mi trovavo sulle colline a Est di Firenze, ospite della Fondazione Santa Margherita di Donnini. Ci rimasi qualche settimana, scrivevo tutto il giorno e poi la sera cenavo, bevevo vino, ridevo e battibeccavo con scrittori italiani, canadesi, irlandesi, inglesi e colombiani. Di rado andavamo d’accordo, ma siamo diventati buoni amici. È così, esattamente così, che si fa politica. Spero di tornare presto. L’isolamento è temporaneo, credetemi.
”.

Non posso che condividere le parole di Fredrik Sjöberg,

Salvo non trovare felice il suo ricordo dell’ultima guerra, durante la quale la Svezia strinse un patto di non belligeranza con la Germania Nazista consentendo alle sue truppe di passate per la Svezia per attraversare (invadere) la Norvegia, mettendola a ferro e fuoco, per raggiungere la Russia.

Inoltre riterrei doveroso tener conto della diversità dei numeri e delle condizioni che esistono tra quei paesi e l’Italia.

La popolazione svedese supera di poco i 10 milioni, quella norvegese non arriva a 5, gli italiani sono a quota 6o; laddove i territori dei tre paesi si equivalgono come superficie.

Inoltre, credo sia doveroso dare atto agli Italiani in quanto popolazione di avere reagito bene.

Così come lo faranno adesso.

Che dire d’altro? Speriamo che passi presto. Per tutti. Anche se temo non sarà così.

Condivido piuttosto l’augurio più sensato che è stato ripetuto dagli uomini di buona volontà: che questa brutta comune esperienza, quando sarà finita, possa servire, al di là di ogni globalizzazione mercantile, economica o finanziaria, a costruire una vera e sincera solidarietà e unione tra i popoli; “glocal” anziché “global”, dove tutto ciò che c’è di meglio nel “globale” coesista con tutto ciò che c’è di buono nel “locale”. E, ad majora.

16 recommended
bookmark icon