Cronaca

A proposito di Silvia Romano

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Il ruolo delle organizzazioni nella cooperazione allo sviluppo

Mentre il mondo dei social si divide tra pro e contro la liberazione di Silvia Romano, tra l’essere indignati per aver pagato il riscatto o, viceversa, il gioire e congratularsi per aver salvato la ragazza, personalmente mi rivedo nella Silvia che a 23 anni decise di partire per un’esperienza di volontariato internazionale in un paese dell’Africa sub-sahariana.
Non potendo giudicare le scelte da lei prese per riuscire ad affrontare 18 mesi in una condizione di totale sottomissione, uscendone apparentemente serena e immune; mi vorrei soffermare invece sulle sue responsabilità precedenti, che potrebbero aver contribuito alla causa del suo rapimento.

1. La scelta dell’organizzazione con cui partire: credo sia doveroso fare una distinzione tra le ONG riconosciute “idonee” dall’AICS come previsto dalla L. 11 agosto 2014 n. 125, specializzate in cooperazione allo sviluppo, rispetto alle ONLUS (Organizzazioni non lucrative di utilità sociale). Queste due realtà appartenenti entrambe al terzo settore, in questi giorni sono state erroneamente condannate senza distinzioni.

2. Le modalità di selezione della ragazza. Lilian Sora, presidente della Onlus, dichiara di aver scelto Silvia per “il giusto temperamento, la giusta volontà, il giusto spirito per fare questo tipo di lavoro”, alias era stata selezionata per la disponibilità a mettersi in gioco e non per le effettive capacità della ragazza.

3. La creazione di una scheda-Paese: conoscere il paese in cui si va, le differenze culturali, le religioni presenti sul territorio, le regole esplicite e le regole implicite fondamentali, le modalità di lavoro, il “risk assessment”, il piano di sicurezza applicato al caso specifico, le responsabilità da assolvere. Quindi studiare, ricercare ed eventualmente presentare dubbi e perplessità prima di partire. Sempre Lilian Sora dichiara “sapevo che solo una malattia o una calamità avrebbe potuto portarsela via”, ammettendo di aver preso in considerazione solo la parte di sicurezza riguardante la “safety”, e non la cosiddetta “security”, ossia la protezione da minacce e attacchi deliberati a cose e persone.

4. Capire come inserirsi nella comunità. Nei corsi sulla sicurezza in cooperazione internazionale ci sono due punti fondamentali:
– Vestirsi in modo consono: quando ci si inserisce all’interno di una comunità non occidentale è necessario capire cosa può turbare l’equilibrio; shorts e canottiere indossate da un bianco in un paesino sperduto del Kenya turbano.
– Non dimenticarsi di essere occidentali: non cercare di assomigliare agli autoctoni e non vestirsi come loro, in quanto questo potrebbe infastidirli. Saremo sempre e comunque dei bianchi.
Silvia ignorava queste regole, al punto da domandarsi sulla qualità della preparazione ricevuta pre-partenza.

5. L’approccio da “white savior” tipico di chi fa le prime esperienze in cooperazione internazionale. Le classiche foto del bianco in mezzo a tanti bambini neri, che sottintende un bisogno intrinseco di percepirci come salvatori, a mio avviso, non sono più accettabili.

Per concludere, ciò che penso della Romano è di una ragazza partita allo sbaraglio, senza una formazione adeguata, con un desiderio molto acuto di fare esperienze e con determinazione; determinazione che probabilmente le ha permesso di resistere nei successivi 18 mesi.
Sono molto contenta per la liberazione di Silvia, ma non posso che augurarmi che si prendano seri provvedimenti per assicurare che chi va a cooperare siano persone formate, capaci e responsabili.

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