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Silvia Romano e Annalena Tonelli, due esperienze a confronto

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Quando aiutare in missione non è sinonimo di improvvisazione

In queste settimane, dal giorno del suo rilascio, Silvia Romano, adesso Aisha, è al centro di una tifoseria da stadio, c’è chi come per alcuni esponenti della politica nostrana è una eroina che ha dimostrato coraggio per le proprie idee e lo stesso per alcuni settori della  Chiesa che vedono in lei addirittura una ‘santa laica’, una donna che ha saputo tradurre in pratica i suoi sogni andando senza arte e ne parte in terra d’Africa e se poi ha abiurato il Vangelo per il Corano cosa volete che sia per la Chiesa di oggi, l’importante è dare testimonianza, di che non si sa, ma va bene così.

Dall’altra parte c’è chi contesta la sua andata in una terra pericolosa senza alcuna preparazione e in maniera superficiale solo con i suoi “sogni” costati 4 milioni di euro, questa almeno è una voce non smentita ne confermata che gira tra i giornali per il suo rilascio.

In tutto questo Silvia, dal suo arrivo a Roma ad oggi ha trovato tempo e modo per ringraziare solo i suoi carcerieri che l’hanno trattata bene, ma nulla per gli uomini che per lei hanno rischiato la vita, al governo che si è impegnato e agli italiani che forse hanno pagato, almeno quanto riportato dai giornali.

Non meravigliamoci se poi molti sui social e non solo l’hanno criticata, sbagliando, in maniera violenta.

Leggendo le cronache di questa ragazza milanese, ho ripensato ad un’altra cooperatrice italiana, Annalena Tonelli, partita cinquant’anni fa per l’Africa anche lei con i suoi sogni di solidarietà, ma, a differenza di Silvia, con una grande preparazione socio sanitaria e una granitica fede in Cristo che non ha mai abbandonato neanche la sera del 5 ottobre del 2003 quando venne uccisa con un proiettile alla nuca per non voler abiurare la sua fede ed a nulla valsero allora le trasfusione di sangue che i suoi tanti “figli” del villaggio africano dove viveva le hanno donato.

Ora riposa per sua volontà nell’eremo di Wajir, tra Somalia e Kenya, tra le sabbie del deserto “più amato del mondo” come lei stessa lo definì.

Leggendo la sua vita attraverso i suoi appunti, tra le tante preoccupazioni per poter portare avanti i suoi progetti di cooperazione, troviamo anche tutta la sofferenza di per non poter dare tutto ciò che voleva ai poveri, ai derelitti, a coloro che sono cacciati che nessuno vuole. Scrive nel suo diario personale:” Scelsi di essere per gli altri: i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, che ero bambina e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale”.

Altro che i selfie con i bambini di colore da inviare agli amici rimasti a casa, Annalena metteva in pratica il suo amore per Cristo in terra mussulmana seguendo le orme di un altro grande apostolo delle missioni come Fratel Charles Foucauld.

Il suo amore per i poveri

Nata in piena guerra nel 1943 a Forlì, secondogenita di cinque figli in una casa della buona borghesia locale, fin da adolescente dimostrò una grande predisposizione per gli studi, tanto che appena conseguita la maturità parte per Boston per seguire un master di giurisprudenza che consegue con il massimo dei voti, ma è proprio in questo periodo che scopre anche la sua vocazione per i più poveri nella nazione più ricca del mondo.

Sarà per lei una esperienza indelebile, il degrado e la violenza nei quartieri poveri tra le luci di una città distratta solo dai suoi tanti business.

Tornata in Italia prosegue gli studi universitari di legge dove anche qui ottiene il massimo dei voti per la sua laurea. Ora, davanti a lei, si aprono molte strade interessanti per una carriera di successo nel mondo dell’avvocatura, ma questo non le sorrideva, il suo cuore apparteneva già a Cristo e ai tanti poveri come quelli che vivevano a Bologna dove risiedeva, come aveva già visto in America.

Davanti a tanto degrado, Annalena non sta solo a guardare e si dà fare aiutando un sacerdote, don Giuseppe, per quelle ragazze sole e rifiutate dalle loro famiglie perché rimaste incinta e non manca, nello stesso periodo, di venire incontro anche alle famiglie del cosiddetto “Casermone”, definita da lei stessa la “bidonville della mia città”. Una vergogna di degrado taciuta nella “rossa Bologna

C’è abbastanza per una ragazza di soli ventiquattro anni, ma non per lei, tanto che coinvolge le sorelle e alcune amiche a dedicarsi anche all’assistenza del brefotrofio cittadino per bambini nati fuori dal matrimonio e abbandonati.

                 Come se la giornata fosse di 48 ore e non di 24, Annalena già impegnata in varie opere assistenziali in città, si appassiona anche ai problemi del Terzo Mondo organizzando conferenze, incontri e anche un mercatino di abiti usati coinvolgendo in questo progetto anche l’Abbè Pierre, il padre dei poveri.

Nel frattempo, come se non avesse altro da fare, si interessa con grande profitto ai problemi dei ragazzi e ragazze detenuti nel carcere minorile della città e trova anche il tempo, aiutata questa volta dalla madre, per porre la prima pietra con lo scopo di costruire un monastero per le clarisse a Lagrimone, vicino Parma.

Leggiamo ancor nel suo diario: “La mia preoccupazione e desiderio insaziabile furono di condividere i problemi degli svantaggiati in modo il più possibilmente profondo e di combattere duramente per crescere insieme e divenire individui più sani in una società più sana e capire la salute come benessere totale delle creature dal punto di vista fisico, mentale e sociale”.

Le numerose vie della solidarietà

Tutte queste attività apparentemente slegate, sono invece unite dal filo della carità che la portano, dopo la laurea, a volgere il suo sguardo verso la cooperazione internazionale e in modo particolare versoi l’India dove solo pochi anni prima c’era stata una gravissima crisi alimentare in tutto il Paese con migliaia di morti per malnutrizione, ma la sua prima tappa sarà invece per una serie di accadimenti fortuiti l’Africa e dal quel momento il Continente diventerà per sempre la sua nova casa.

Dopo un corso intensivo a Londra per approfondire il suo inglese, parte alla volta del Kenya nel 1969 come suora laica per la congregazione della Consolata di Torino.

Grazie alla sua preparazione, insegna letteratura inglese ed africana avviando corsi di storia e di geografia dell’ambiente africano.

Alla fine del suo impegno, Annalena decide di rimanere per proseguire il suo progetto e si pone allora sotto le dipendenze del governo keniota con un’unica scelta: quella di vivere nella provincia di Wajir al confine tra il Kenya e la Somalia.  

A chi le faceva notare che andava in luoghi dove vigeva l’Islam più ortodosso, una donna bianca per di più cristiana certo non era proprio la benvenuta, ma lei rispondeva che andava a testimoniare il Vangelo con la sua stessa vita.      

Inizia la sua opera di cooperazione mettendo in pratica il suo progetto, non solo quello di insegnante di varie materie, ma di andare sempre verso i più poveri e dimenticati, si prende cura in questi anni dei tanti bambini, specialmente con gravi handicap non solo motori, ma anche psichici e una cura particolare per quelli sordo muti. I malati sono ormai tanti e Annalena capisce che deve darsi tutta a loro e lascia l’insegnamento per curare i suoi “figli”.

Scrive ancora:” Nel centro facevamo riabilitazione nel senso più vasto della parola. Ci occupavamo in particolare dei malati di Poliomielite e di quelli con danni cerebrali. Ci occupavamo anche di ciechi e sordi che portavamo a scuole speciali nel down country”.

Oltre tutti i lavori manuali per portare avanti queste opere assai impegnative,affermava: “Tutte insieme – riferendosi alle ragazze e ragazzi che nel frattempo si erano unite a lei – “abbiamo condiviso battaglie, successi e fallimenti tentando di vivere una migliore qualità di vita come fratelli e sorelle di un SOLO DIO e come parte inseparabile di quel mondo “. 

Ciò che colpisce, a margine di questa storia, è vedere anche alcune foto di Annalena all’inizio della sua avventura africana come una bella ragazza, ma dopo quasi dieci anni africani il suo volto ancora bello è scomparso per lasciare due grandi occhi pieni d’amore e un sorriso dolcissimo e con questo sorriso ha realizzato da sola opere che neanche cento uomini ben addestrati avrebbero potuto compiere, ma lei, come spesso diceva, aveva un grande alleato in Dio che la guidava con il suo amore.  

A questo punto della storia non basterebbe certo un articolo per raccontare tutto quello che ha fatto aiutando, tra l’altro, malati di tubercolosi e di lebbra: “Con le mie compagne –scrive ancora – ci interessavamo dell’aspetto sociale dando lavoro ai pazienti e alle loro famiglie, terapie occupazionali e follow-up per i dimessi. Nel corso dei nove anni in cui mi sono occupata del progetto sono stati trattati e accuditi 1500 pazienti”.   

Le minacce e le vessazioni

Ma la vita di Annalisa non è solo un susseguirsi di progetti di successo, di riconoscimenti internazionali ed africani, ma anche aver vissuto rivolte spesso guerre civili e rivolte sanguinarie dove la vita non aveva più alcun significato davanti a montagne di cadaveri con tante persone abbandonate a se stesse, specialmente gli orfani e i malati, come nel massacro del 1984 di Wagalla   dove è coinvolta nel recupero dei corpi e nell’assistenza ai feriti.   

Nonostante la sua abnegazione verso i più infelici, è fatta bersaglio di intimidazioni e di diversi attentati, ma nulla la ferma, ma dopo gli ennesimi casi di vessazioni, di furti e di minacce che le rendono la vita impossibile, decide di trasferirsi momentaneamente dalle Piccole sorelle di East Leigh, nei pressi di Nairobi. Qui, nonostante stia imparando anche il somalo per poter aiutare quel popolo ormai in guerra da trent’anni, come una doccia fredda apprende di essere stata espulsa come ospite non grata per le accuse a lei rivolte da fanatici mussulmani e deve lasciare subito il Kenya.

Tornata in Italia si ritira prima presso la comunità monastica di Monteveglio e poi s’immerge in quell’oasi di pace che è la Pieve di Santo Stefano.

In quei momenti di calma però il suo cuore torna ai suoi poveri, ai suoi malati che ha lasciato in Kenya.” Amati beni lasciati a Wajir – scrive nel suo diario – i poveri, i malati… ne ho il corridoio e la cella affollati e sono disposta a cedere loro ogni giorno i posticini più ambiti e più vicini alla stufa e poi io li riscaldo con tutto il bene, la tenerezza, la nostalgia che dilaga dal mio cuore”.

Finalmente nel 1986 può tornare in Africa, questa volta in Somalia per un lebbrosario e da questo momento come per recuperare il tempo perduto si immerge in tanti progetti che riesce sempre a portare a buon fine e sono alcune decine.

Purtroppo, proprio gli ultimi anni pur tra tanti riconoscimenti, Annalena sembra quasi infastidita da tanto clamore perché sa che c’è ancora molto da fare non solo per le sue tante opere, ma per convincere le frange più estreme della popolazione sui veri obiettivi del suo lavoro che svolge lontano dalla sua casa per amore di chi soffre ed è abbandonato, ma è difficile in quei posti per una donna per giunta cristiana, una situazione non è accettato da tutti.

La sera del 5 ottobre 2003, intorno alle sette di sera, due sicari la freddano sulla porta del suo asilo, muore dopo un’ora di agonia circondata dall’affetto dei suoi tanti amici africani, e ora, proprio in quel deserto del Wajir dove si rifugiava tante volte per incontrare Dio, ha trovato la sua pace, lasciando a tutti coloro che l’hanno conosciuto un rimpianto per aver incontrato una gran donna piena di amore e portatrice di pace.

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