Cronaca

Brasile: la morte di un guerriero

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Era il guardiano del suo popolo. Un guerriero dall’immenso coraggio, deceduto la scorsa settimana a causa dell’epidemia Covid-19 che sta mietendo migliaia di vittime tra gli indios dell’Amazzonia. Paulinho Kaiapan aveva 67 anni, buona parte dei quali spesi a combattere contro cercatori d’oro, taglialegna ed autorità corrotte che volevano impadronirsi delle ricchezze del suo territorio. La tribù Kayapò, da secoli stanziata nella regione del Mato Grosso, in un territorio quasi interamente coperto da foresta pluviale, ammonta a poco meno di 10mila individui, una manciata di sopravvissuti rispetto alla grande comunità india che popolava la regione all’inizio del secolo scorso, quando i coloni bianchi entrarono in contatto con loro, decimandoli e spingendoli verso le aree più remote situate ad ovest dell’immensa area irrigata da mille corsi d’acqua che sfociano nel fiume Xingu. Loro infatti si sono sempre definiti Mebengokre, che in lingua india vuol dire “gli uomini del posto dell’acqua”. Ora questo popolo autocnono dell’America Latina dovrà sopravvivere senza la sua guida carismatica. Perché Paulinho Kaiapan, non era solo un capo tribù, ma una figura internazionalmente riconosciuta, che aveva saputo, attraverso mille battaglie, tutelare la sua comunità, intervenendo anche presso assisi internazionali, come quando nel 1988 si recò a Washington per opporsi con successo al progetto di costruzione di dighe idroelettriche sul fiume Xingu. Un’altra decisiva presa di posizione di Kaiapan è quella che impedì lo stanziamento nella città di Maria Bonita di migliaia di “garimpeiros” i famigerati cercatori d’oro che, incuranti della tutela dell’ambiente, si erano recati nella zona del Mato Grosso, alla ricerca del prezioso minerale. Ma la battaglia che lo ha consacrato come vero leader dei 900mila indios che ancora popolano l’Amazzonia è stata quella che ha portato il Governo di Brasilia a redigere la Carta Costituzionale che ha sancito il diritto alla terra per le 240 tribù indigene che sopravvivono in Brasile. Neanche un uomo così coraggioso ha potuto però resistere alla pandemia di Covid-19, che al momento ha fatto del Brasile il suo epicentro a livello planetario, con oltre un milione e 200mila contagi e 50mila morti, stime peraltro al ribasso, vista la quasi assenza di un monitoraggio adeguato in molte regioni del Paese. Particolarmente devastante è l’impatto della pandemia tra le comunità indie che, a causa del loro sistema immunitario, risultano maggiormente esposte agli effetti nefasti del virus. Ma la causa principale di tante morti tra le comunità indigene è l’assenza di presidi sanitari adeguati per prevenire e curare la malattia. L’unico ospedale attrezzato con peraltro pochi posti di terapia intensiva è nella città di Manaus, dove il tasso di contagio è altissimo. Secondo i leader delle tribù, il vero responsabile della strage silenziosa che sta decimando i guardiani dell’Amazzonia è il Presidente Jair Bolsonaro che, con il suo atteggiamento tra il negazionista e il fatalista, non sta mettendo in campo la rete di protezione sanitaria indispensabile per limitare la circolazione dell’infezione. Bolsonaro è lo stesso che quando eravamo noi italiani al centro del flagello, definì l’Italia un popolo di anziani e dunque maggiormente predisposto agli effetti del Covid-19. Un ragionamento che se applicato in realtà culturali come quelle indigene porta ad effetti ben più nefasti di quelle che ci hanno riguardato. Perché per le tribù quasi completamente analfabete che popolano le foreste amazzoniche, la scomparsa della comunità anziana, è una perdita devastante in quanto detentrice del sapere sedimentato con l’esperienza. Un crimine contro l’umanità dunque, che dovrebbe essere stigmatizzato con maggiore forza dai media internazionali e che dovrebbe spingere le Nazioni Unite ad esercitare pressioni sul Governo di Brasilia affinché prenda atto della gravità della situazione mettendo in campo le risorse adeguate per fronteggiarla.

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