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A morte gli autori

Succede tutte le volte che guardiamo un film. Qualcuno fa un commento a caldo mentre scorrono i titoli di coda: “Mi è piaciuto, però che strana quella scena finale. Chissà cosa aveva in mente il regista”.

Lo spettatore che ha pronunciato questa frase probabilmente non lo sa, ma le sue parole (precisamente l’ultima frase) si schierano in una fazione di un dibattito filologico nato approssimativamente un secolo fa.

Come facciamo a sapere chi ha creato un testo letterario? Di solito è molto facile. A meno che non si tratti del Trattato del Sublime o di altri testi vecchi di millenni la cui paternità è controversa, il nome dell’autore compare in copertina. Alessandro Manzoni ha scritto I Promessi Sposi. Semplice, no?

Come facciamo a sapere chi ha creato una canzone? Può essere un po’ più lungo da spiegare, ma di solito è altrettanto evidente. Basta precisare chi sia l’autore della composizione e chi abbia eseguito la performance, e il gioco è fatto. Help è una canzone composta da Lennon/McCartney (questa la celebre dicitura sui credits dietro a quasi tutti i dischi dei Beatles) ed eseguita da questi ultimi assieme a George Harrison e Ringo Starr. Qualcuno potrebbe aggiungere il nome di George Martin, che faceva di mestiere il produttore discografico e si occupava quindi di mixaggio, masterizzazione e in generale di tutta la supervisione artistica. La risposta più completa alla domanda iniziale, quella più “democratica”, potrebbe essere questa. Gli autori (concettuali o materiali che siano) di Help sono Lennon, McCartney, Starr, Harrison e Martin. Trovare tutti gli “autori” di una canzone può portare a una lunga lista di nomi (specialmente nei tempi recenti del sampling musicale), ma, in generale, la precedente è un’affermazione alla quale è difficile opporsi.

Torniamo adesso alla mente del regista.

E facciamo la domanda: Chi è l’autore di un film?

Qualcuno alza la mano. E’ il regista, no? È lui che confeziona il film, giusto? È il primo nome a comparire nei titoli di coda, dev’essere come minimo la persona più importante.

Era d’accordo con chi alza la mano il signor André Bazin, critico cinematografico francese e fondatore dell’influente rivista Cahiers du Cinema. La visione cinematografica di Bazin, influenzata filosoficamente dal personalismo di Charles Renouvier, e artisticamente dalla corrente del neorealismo italiano e dalle innovazioni tecniche di Orson Welles e Gregg Toland, era nettamente regista-centrica.

Per Bazin, il film doveva rappresentare la visione personale di un artista su un certo argomento. La pellicola era lo strumento attraverso cui un regista poteva esprimere tutti i suoi pensieri, le sue ossessioni, le sue passioni, i suoi sentimenti. Il regista era padre e madre del suo film, portato in grembo fino al debutto nelle sale. Tutti gli altri partecipanti alla realizzazione del film erano suoi collaboratori.

Non stupisce che Bazin si opponesse alla teoria del montaggio sovietico, che rilevava il montaggio (e non la fase di riprese) come il punto focale della creazione cinematografica, il “nervo del cinema”, per dirla con le parole di Sergei Eisenstein. Se il regista russo nel suo trattato Approccio dialettico alla forma cinematografica affermava che “determinare la natura del montaggio [fosse] la risoluzione dello specifico problema del cinema”, Bazin enfatizzava invece l’importanza della mise-en-scene, il puro arrangiamento scenico, non contaminato da montaggi e altri effetti speciali della postproduzione. Nella messa in scena, il regista poteva concentrarsi sulla realtà oggettiva (il realismo era un altro punto fondamentale della filosofia di Bazin) e far prevalere così la sua visione.

Bazin e Cahiers du Cinema ebbero ampia influenza fra gli anni ‘40 e ’60. Francois Truffaut (che dedicò I 400 colpi a Bazin) nel suo trattato Une certaine tendance du cinéma français (1954) criticava il cinema di alcuni contemporanei, troppo fedeli non solo ai romanzi da cui erano tratti, ma anche alla stessa sceneggiatura. Per Truffaut, il regista aveva bisogno di osare, e non limitarsi ad aggiungere una location e degli attori a una storia cartacea preesistente, come avrebbe fatto un regista teatrale.

Nel 1955 Truffaut pubblica su Cahiers una recensione del film di Jacques Becker Ali Babà. L’articolo funge da manifesto della Politica degli Autori, nota anche come teoria dell’auteur. Ali Babà, argomenta Truffaut, non è un film minore dell’artista francese, bensì un piccolo tassello nel puzzle della sua filmografia. I film minori, anzi, forse non esistono proprio: “non ci sono le opere, ci sono solamente gli autori”.

Questa teoria, che paragona direttamente il regista di un film al pittore di un quadro o all’autore di un libro, è in chiara armonia con la visione di Bazin e di altri intellettuali a loro contemporanei (come Roger Leenhardt e Alexandre Astruc): un uomo solo è l’autore di un film, e la sua visione artistica è indiscussa.

La teoria dell’auteur prese piede in Occidente e fu particolarmente popolare in Francia. I maggiori esponenti della Nouvelle Vague, oltre a Truffaut, furono sostenitori della teoria sia in quanto critici che in quanto registi: Godard, Rivette, Rohmer…

Oggi, con la parola auteur si tende a fare riferimento ad artisti della regia noti per i loro temi ricorrenti, stili distintivi e approcci senza compromessi: Hitchcock, Kubrick, Scorsese e Tarantino per dirne alcuni.

Forse la conseguenza più duratura sul mondo del cinema che ha avuto il dilagare negli anni di questa teoria è stata la rivalutazione (e il conseguente innalzamento) di registi “popolari”, come lo stesso Hitchcock e l’americano Howard Hawks.

Non sorprende che molti “auteurs”, specialmente nella Nuova Hollywood statunitense degli anni 70, provenivano dal cinema di genere, quello di gangster movies, western e thriller. Registi appassionati e animati da spirito di ribellione contro lo studio system dei decenni passati, all’ombra del comodo berretto dell’auteur, hanno raccontato la disillusione del decennio di Watergate e della crisi petrolifera. Troviamo in questo macro-filone Il Padrino, Taxi Driver, Serpico, Carrie – lo sguardo di Satana. Già a fine anni 60 c’erano stati La notte dei morti viventi, Bonnie e Clyde, Il mucchio selvaggio, Il laureato…

La teoria dell’auteur ha dato la spinta ad alcuni dei movimenti più importanti della storia del cinema e contribuito a realizzare alcuni dei migliori film mai fatti (Jules e Jim di Truffaut, Fino all’ultimo respiro di Godard, Cleo dalle 5 alle 7 di Agnes Varda meritano menzione come capolavori della Onda Nuova francese, la Nouvelle Vague). Ma ha anche cancellato i meriti di tutti gli altri artisti coinvolti nella produzione di questi film.

Una dei primi detrattori della teoria dell’auteur fu l’americana Pauline Kael, giornalista per il New Yorker. Sosteneva che privilegiare il regista in quanto unico messaggero dei contenuti di un film fosse sbagliato e riduttivo.

I fatti danno ragione a Kael.

La teoria dell’auteur ignora quanto sia essenziale la sceneggiatura, a cui spesso il regista nemmeno pone mano, e che talvolta viene scritta e completata prima ancora che il regista venga scelto dallo studio! Come potrebbe il regista presentarci la sua visione rivoluzionaria se il messaggio della storia è già stato scritto prima ancora del suo coinvolgimento? Forse l’auteur è, per forza di cose, esclusivamente un regista-sceneggiatore, come Wes Anderson, Paolo Sorrentino e Quentin Tarantino? Anche ignorando il fatto che moltissimi registi-sceneggiatori (compresi Anderson, Sorrentino e Tarantino) hanno avuto nella loro carriera dei co-autori con cui hanno diviso l’accreditamento, ciò non toglie il fatto che altri grandi artisti del cinema come Scorsese, Spielberg e Hitchcock hanno raramente (o mai, nel caso di Hitchcock dopo l’avvento del sonoro) scritto dei copioni. Forse loro non sono dei veri “auteurs”?

La teoria dell’auteur ignora quanto sia essenziale il ruolo del montaggio e della fotografia, i reparti più squisitamente cinematografici di questo affascinante mezzo artistico. Il montaggio non serve solo a stabilire il ritmo del film: un bravo montatore può anche agire da terzo storyteller (dopo sceneggiatore e regista) scegliendo se tagliare delle scene, se inserire o meno delle out-takes improvvisate, se plasmare l’ordine degli eventi optando per un inizio e una fine diversi da quelli che regista e sceneggiatore avevano in mente. La fotografia infonde tono, carisma, colore (anche letteralmente) al film. Se un’inquadratura colpisce è merito della sinergia fra il regista e il direttore della fotografia.

La teoria dell’auteur ignora quanto sia essenziale il contributo dell’attore sul set. Alcune delle scene più famose della storia del cinema sono state improvvisate sul momento dall’interprete: De Niro che si minaccia da solo allo specchio in Taxi Driver, Harrison Ford che risponde con un annoiato colpo di pistola alle esuberanti minacce di un nemico armato di sciabola nei Predatori dell’arca perduta, Rutger Hauer che vaneggia su navi in fiamme e lacrime nella pioggia in Blade Runner… Scene, queste, che devono essere interpretate nell’ottica di una gigantesca visione di un cineasta che ingloba cinquanta film?

E questi sono solo esempi che riguardano l’aspetto prettamente narrativo di una pellicola.

Il cinema, come sostiene Kael, è l’arte collaborativa per eccellenza.

“E quindi?” Mi potrebbe chiedere l’uomo con la mano alzata. “Chi è l’autore di un film?

Bella domanda. “Hai due minuti?” Risponderei io.

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