Esteri

Polveriera Caucaso

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Dopo un quarto di secolo di relativa calma, da una settimana sono ripresi furiosi gli scontri tra i separatisti armeni del Nagorno-Karabakh e l’Azerbaijan.

Per ora sul terreno di questo conflitto dimenticato ma mai sopito, sono rimaste oltre trenta vittime, molte delle quali civili, colpite dai colpi dell’artiglieria azera, ma fonti sul territorio parlano di un bilancio ben più grave, con oltre duecento caduti da entrambe le parti.

Una situazione che sta precipitando di ora in ora, che ha spinto sia il Presidente armeno Armen Sarkissian sia il suo omologo azero Ilham Aliyev ad indire lo stato d’emergenza nei rispettivi Paesi e una mobilitazione quasi generale.

Una disputa che ha una valenza esplosiva per tutta la regione del Caucaso e che potrebbe avere ricadute anche in altri scenari mediorientali. Armenia ed Azerbaijan infatti sono rispettivamente alleati di Russia e Turchia, le due potenze che hanno recentemente siglato un accordo sul quale si fonda la fragile tregua siriana. Proprio Mosca ed Ankara stanno ora armando i rispettivi partner, facendo presumere che, se non si troverà una soluzione di compromesso, i combattimenti potrebbero degenerare in una vera guerra dalle conseguenze devastanti.

I separatisti armeni hanno contestato l’uso da parte dell’esercito di Baku di droni di ultima generazione, gli stessi usati con successo dall’esercito della Mezzaluna in Libia, aerei senza pilota in grado di scatenare una potenza di fuoco che ha frantumato le esili difese predisposte dalle milizie legate ad Erevan. La Russia ha risposto all’aiuto militare turco con l’invio di materiale bellico composto soprattutto da artiglieria leggera, ma nella capitale armena sembrano essere arrivati i potenti caccia-bombardieri Sukhoi SU 30 che potrebbero radere al suolo i mezzi corazzati inviati da Baku.

Una prova di forza muscolare tra i due giganti che da sempre si contendono la regione del Caucaso e che, oltre agli armamenti, consta nell’invio di mercenari addestrati alla guerriglia in questi territori montagnosi ed impervi. Dalla caduta dell’Unione Sovietica infatti, Armenia e Azerbaijan sono state viste come teste di ponte da Mosca e Ankara per esercitare un’egemonia regionale, esplosa nel conflitto che dal 1988 al 1996 ha causato oltre 30mila morti.

Ora la situazione potrebbe nuovamente degenerare, se i leader delle potenze interessate non decideranno di porre un freno ai rispettivi partner, sospendendo l’invio di materiale bellico ed imponendo una tregua. Un invito alla ragionevolezza è arrivato anche dall’Unione Europea, attenta a stabilizzare una regione ricchissima di idrocarburi e soprattutto di gas naturale che dal Mar Caspio arrivano con oleodotti lunghi migliaia di chilometri nel Vecchio Continente, attraversando prima la Georgia e poi la Turchia. Un invito alla calma non recepito da Armenia ed Azerbaijan, alle prese con un puzzle territoriale di difficilissima gestione.

L’enclave del Nagorno-Karabakh è una regione che formalmente rientra nei territori amministrati da Baku ma di fatto da sempre indipendente, con la stragrande maggioranza della popolazione di etnia armena e di religione cristiana. Un lascito della politica di Stalin, che con confini arbitrari e esodi forzati ha consentito a Mosca di controllare per settant’anni le ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. Uno status quo contro natura, come ci dimostrano questi ultimi giorni di drammatici combattimenti che potrebbero portare a ridisegnare le mappe geografiche stilate su equilibri così instabili.

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