Giovanni Turco, filosofo, pungolato da Antonello Cannarozzo, nell’intervista che segue, affronta, tra luci e ombre, il tema, oggi nuovamente di grande attualità, dell’opportunità dell’esistenza di un partito cristiano.
Scrive Antonello Cannarozzo (AC):
Secondo una diffusa pubblicistica, in questi ultimi anni abbiamo una classe dirigente non all’altezza del governo del Paese, sia nei riguardi delle forze di governo e sia dell’opposizione. Una condizione difficile, vista la situazione in cui versa il Paese.
Il pensiero corre, come nei momenti di crisi, inevitabilmente al passato, specialmente per noi italiani con qualche capello grigio, alla fu Democrazia Cristiana, nota anche come “mamma Dc”, per come sapeva gestire quel potere che guidò le sorti del Paese per quasi cinquant’anni, trasformandosi, ben presto, in un ‘partito Stato’, fondamentale per capire la storia del secondo dopoguerra, pur con luci e ombre che hanno segnato la nostra storia attuale.
Molto si è scritto di quegli anni, dei suoi uomini più rappresentativi, delle loro politiche, dei loro successi e dei loro errori in una visione complessiva che ha visto la Democrazia Cristiana protagonista in ogni ganglio della vita del Paese.
Un taglio diverso, dalla numerosa pubblicistica, invece, ce l’offre il filosofo italiano Giovanni Turco, attualmente docente presso l’Università di Udine, con il suo ultimo libro “Il problema politico dei cattolici tra Italia e Germania, Un profilo essenziale” pubblicato per le edizioni Solfanelli, che affronta un aspetto ancora poco analizzato dagli storici: le origini del pensiero cattolico e le sue problematiche filosofiche, nonché la questione ideologica e le sue proiezioni sulla secolarizzazione.
Lo sguardo attento dello studioso conduce il lettore ad affrontare gli aspetti ideali più profondi non solo della Dc come partito, ma anche la sua origine storica ed intellettuale, che inizia in qualche modo fin dalla penetrazione delle idee-forza della Rivoluzione Francese, diffuse sotto il profilo istituzionale con le invasioni napoleoniche, passando poi attraverso la storia dei secoli XIX e XX, con tutte le sue contrapposizioni, fino ad arrivare ad essere l’attore principale del Paese dopo il secondo conflitto mondiale.
Versanti teorici che troveremo anche nella seconda parte del libro, quando viene affrontata la genesi del partito Christlich Demokratische Union Deutschlands, abbreviato in CDU tedesco, guidato da Konrad Adenauer.
Anche qui Giovanni Turco da attento filosofo ci conduce lungo le origini della storia moderna tedesca, con tutte le implicazioni politiche che ebbero luogo fin dalla famosa Pace di Augusta del 1555, e più nettamente, per i suoi risvolti politici, considerando ciò che sarà la presenza dei cattolici in Germania, con il trattato di Pace di Westfalia nel 1648 dando ai cattolici nei secoli a venire un ruolo nella politica tedesca non lontano da quella nostrana, dove non mancano anche qui luci ed ombre sui suoi scopi originari.
Insomma, si tratta di un libro che certamente coinvolgerà il lettore per la sua attualità e per la riflessione sulla teoresi e la pratica della politica cristiana e di cristiani, che, nonostante tante complessità, resta una questione viva ed essenziale, per il presente e per il futuro.
Su tali premesse chiede al Prof. Giovanni Turco (GT)
AC Ezra Pound affermava che se uno non era capace di morire per le proprie idee “o lui non valeva niente o le sue idee non valevano niente”. Una definizione che si sposa bene con la DC. Nessuno dei suoi uomini, infatti, la difese nel momento più drammatico di “Mani Pulite”. Si è sciolta come neve al sole e la sua impostazione politica fu dispersa in mille rivoli, senza più alcuna rilevanza né politica e né tanto meno ideale. Come è stato possibile un accadimento simile che ha di fatto creato un vuoto ancora ai giorni nostri?
GT La vicenda storica della Democrazia Cristiana affonda le radici nel fermento del modernismo teologico e sociale degli inizi del Novecento.
Ancor prima il suo impianto ideologico attinge all’eredità del democratismo cristiano, che ebbe già i suoi antesignani in Felicité Lamennais (nella terza fase del suo itinerario intellettuale), in Philippe-Joseph-Benjamin Buchez (teorico della convergenza tra principi rivoluzionari e cristianesimo) ed in Marc Sangner (con il movimento Le Sillon).
In sostanza, le origini della Democrazia Cristiana sono da ravvisarsi in quella corrente intellettuale che ha accolto lo “spirito” della Rivoluzione francese, ed ha preteso di rivelarlo a sé medesimo, conferendogli una lettura “religiosa” messianico-immanentistica, coerente con sé medesima.
È ormai un dato acquisito, sotto il profilo storiografico, che il vero fondatore della Democrazia cristiana (donde l’espressione politica nel Partito Popolare) è stato don Romolo Murri (per il suo modernismo, poi condannato e scomunicato).
In questa prospettiva la Rivoluzione costituisce una epifania: manifesterebbe il cristianesimo a sé stesso e lo invererebbe nella rivoluzione stessa. Mentre gli darebbe compimento, non potrebbe non immanentizzarlo.
In tal senso, è la storia il criterio della Rivelazione, e non viceversa. Ed è la “modernizzazione” (nel senso razionalistico) il metro della storia: essa ne misurerebbe il progresso (secondo il suo attuarsi effettivo).
A tenore di questa impostazione, dei due termini che costituiscono il binomio programmatico – “democrazia” “cristiana” – è il secondo ad essere il fulcro del primo, e non viceversa.
La democrazia, nel suo significato moderno – cioè come fondamento del governo e non come forma di governo – è l’asse della concezione della politica (ed ancor prima della vita).
Il metodo democratico (a partire dalla linea politica decisa dal Congresso del Partito) ha il primato su qualsivoglia principio. Ne è testimonianza l’operato politico-legislativo della Democrazia Cristiana. Ne ha fatto oggetto di specifica considerazione, tra l’altro, l’ex segretario del medesimo Partito, Flaminio Piccoli, attestando che il processo di modernizzazione (ovvero di secolarizzazione) altrove svolto per l’influsso del protestantesimo, dell’illuminismo e del socialismo, in Italia affonda le radici nell’azione dei cattolici democratici. Non stupisce, quindi, la nota tesi di Gramsci, secondo cui il cattolicesimo democratico “amalgama, ordina, vivifica e si suicida”.
La parabola della Democrazia Cristiana giunge coerentemente all’autoestinzione, non semplicemente per auto-consunzione, ma per auto-compimento. Il compimento della democrazia nel significato moderno, assunta quale metodo, criterio, contenuto e fine, non può non assorbire qualsivoglia criterio e non far propria la logica del fatto compiuto, ritenendo la laicizzazione generalizzata un incremento qualitativo.
AC C’è un distinguo ideale che lei rileva per i cattolici in politica: uno è “essere” cattolico, altro è “farsi” cattolico ed altro ancora è “dirsi” cattolico. Una definizione che merita un approfondimento nell’ambito della res publica chiristiana.
GT Altro è una politica di cattolici, altro è una politica cattolica.
La prima potrebbe svolgersi anche lungo direttrici anticattoliche o agnostiche.
Il dirsi o presentarsi come cattolici in politica, nulla dice sotto il profilo delle finalità e dei principi dell’agire politico (al di là di ogni considerazione soggettiva sulle intenzioni o sulla sincerità). Altro, invece, è una politica cattolica, cioè informata ai principi della razionalità naturale e della Rivelazione soprannaturale.
Questa, proprio perché tale, ha un rilievo obiettivo, che si concreta nelle finalità perseguite ed attuate, quali che siano gli stessi soggetti che ne sono artefici.
Quantunque, ordinariamente e doverosamente, il versante oggettivo e quello soggettivo siano ed abbiano da attuare strettamente connessi e si riverberino l’uno sull’altro. La differenza tra le due impostazioni è obiettiva e constatabile da chiunque. Anche in questo ambito, una considerazione soggettivistica impedisce di guardare alle cose. Un uomo politico potrebbe essere personalmente pio, ma agire in modo empio nell’attività propria della legislazione e del governo.
O viceversa, potrebbe essere manchevole sotto qualche profilo nella rettitudine individuale, ma (per i motivi più diversi) condurre un’azione retta per il bene comune.
AC Nel suo libro lei dimostra come le origini del cattolicesimo politico nascono dal rapporto con lo spirito della Rivoluzione francese, di fronte al quale si registrò una divisione in tre categorie ideali tra i cristiani. Quelli che fin dall’inizio del secolo scorso combatterono questo nuovo pensiero d’Oltralpe, quelli che invece videro una certa coerenza con la dottrina cattolica dando vita ai futuri cattolici liberali, ed infine coloro che si proiettarono, con una visione prettamente rivoluzionarie, verso il mito della modernità tout court, negando ogni aspetto della tradizione cristiana. Come individuare oggi queste tre categorie, sempre se ancora esistono?
GT È chiaro che l’ordine politico costituisce un problema per i cattolici a partire dalla presa d’atto dei profondi cambiamenti introdotti a seguito della Rivoluzione francese.
Finché la societas christiana è restata tale – almeno nei suoi assi portanti – il problema non si è posto se non come questione di rettitudine dell’esercizio delle responsabilità politiche (nel governo e nella legislazione).
Allorché l’ordine civile informato ai principi cristiani è stato scosso dalle fondamenta, anzi allorquando ne sono state divelte le radici (anzitutto dal punto di vista del diritto pubblico), si è avvertita la necessità di un’azione capace di rettificare ciò che era stato mutato, di ordinare le nuove forme di vita sociale e politica, nonché di ricostruire un cosmo civile alla luce di principi permanenti.
I cambiamenti introdotti – sotto il profilo intellettuale, morale e normativo, dalla Rivoluzione francese (o da questa derivati) fanno innegabilmente da spartiacque.
Secondo l’analisi di Robert Havard de la Montagne, i cattolici vi si relazionarono secondo tre linee di valutazione e di azione (emblematicamente, di fronte al trinomio rivoluzionario): 1. I cattolici controrivoluzionari (ed il magistero della Chiesa, particolarmente da Pio VI a Pio XII) ne respingono sia le cause sia le conseguenze, e con queste l’intero trilemma rivoluzionario (Liberté, Égalité, Fraternité).
I cattolici liberali, ne accolgono la Liberté nel suo significato rivoluzionario, ma conservano agli altri due elementi un significato complessivamente tradizionale.
I cattolici democratici, fanno proprio l’intero trilemma rivoluzionario, con la semantica inconfondibile che gli è propria.
Tale categorizzazione, nella sua profondità essenziale, resta permanente.
A sua volta, il problema del rapporto della cultura politica di estrazione cattolica con il razionalismo e con il positivismo, come quello con la secolarizzazione e con la laicità, rimane ineludibile. Nessun appello all’unità (anche solo operativa) può risolverlo, nessun ricorso all’autorità può occultarlo. Anzi, ai nostri giorni, la lezione dell’esperienza non solo lo ripropone ineludibilmente, ma fa emergere il fallimento dei tentativi di estrinseca composizione tra impostazioni irriducibili.
AC Il concetto di Italia Lei lo affronta considerando due diverse concezioni: quella dei popoli della Penisola uniti da una comune religione e da una comune civiltà, per arrivare poi all’Italia “fattizia”, quella creata, come lei la definisce, dall’ideologia della nazione risorgimentale. Due visioni opposte che meritano certamente un approfondimento per capire quali di queste due Italie abbiamo oggi?
GT A metà del secolo XIX, studiosi come Luigi Taparelli d’Azeglio, Matteo Liberatore e Carlo Curci proposero una distinzione concettuale di rilievo diagnostico.
Essi distinsero tra “l’Italia reale” e “l’Italia fattizia”, cioè tra la realtà delle popolazioni della Penisola, unite obiettivamente dal comune retaggio della cultura e della fede, e “l’idea di Italia” teorizzata dal pensiero risorgimentale.
Secondo questa analisi, “l’Italia reale” è frutto del “lungo lavorio dei secoli”, è caratterizzata da una grande varietà (di istituzioni, di costumi, di opere) nel contesto di una comunanza nell’essenziale.
Dove la diversità non impedisce la comunanza. Diversamente, il progetto della “nuova Italia” (per usare l’espressione crociana) intende costituire una “creazione” ex nihilo. Qualcosa di inedito, derivante dall’eredità illuministico-napoleonica e dalla temperie del romanticismo (che prende forma istituzionale a partire 1796).
Nel caso della prima si può parlare della configurazione di una “unione”, in quello della seconda del paradigma dell’“unità”.
Storicamente la seconda si è affermata, soppiantando la prima, ed ha conferito una impronta inconfondibile allo Stato risorgimentale.
Studiosi di varia provenienza, su questo tema, hanno riproposto analisi diverse, eppure almeno per qualche aspetto convergenti. Il problema di “pensare l’Italia” è oggi più che mai attuale, particolarmente di fronte alla crisi recente e recentissima.
Quale Italia auspicare per l’avvenire? Su quali basi? Con quale rapporto nei confronti della sua storia? Con quale vincolo rispetto al cristianesimo? Si tratta di interrogativi decisivi, anche per gli sviluppi politici.
AC Nella fondazione dei Popolari nel 1919, e soprattutto nella rifondazione nel 1942 con il nome di Democrazia cristiana, il concetto di res publica christiana è completamente assente, definendosi questi, anzi, negli statuti una formazione politica “aconfessionale e dunque “né cattolica, né anticattolica”. Una linea politica che potremo definire orizzontale, senza alcuna trascendenza di principi. È stato, dunque, un inganno politico per cinquant’anni richiamarsi politicamente al nome di cristiana?
GT Proprio l’aconfessionalità del Partito popolare fu al centro di forti polemiche e di critiche recise (come quelle del cardinale Tommaso Pio Boggiani, di mons. Olgiati e di padre Gemelli). In effetti l’aconfessionalità si presentava come espressione equivoca, tanto più che il neonato partito attingeva linfa proprio nel campo sociale cattolico. Non pochi osservarono che l’aconfessionalità come neutralità era impossibile tanto sotto il profilo dell’ipotesi quanto sotto quello dell’esperienza.
Il magistero della Chiesa, particolarmente quello di Leone XIII, la aveva valutata negativamente, ed aveva ristretto il significato stesso dell’espressione “Democrazia cristiana”, escludendone l’uso politico.
La prospettiva del democratismo cristiano è profondamente diversa da quella del “cattolicesimo sociale” (sviluppatosi particolarmente nella seconda metà del XIX secolo, in alternativa all’avanzare della liberalizzazione economico-sociale) e di quella dei gruppi che avevano come obiettivo il modello della res publica christiana (fortemente presente nella cultura cattolica della prima metà del XIX secolo).
Gli stessi teorici del democratismo cristiano hanno fatto ripetutamente osservare che la sua prospettiva se ne discostava profondamente.
Solo una serie di urgenze istituzionali (come durante il secondo dopoguerra) e di rappresentazioni approssimative (e semplificatorie) hanno più o meno ampiamente velato questa evidenza.
AC Rifacendoci a quest’ultima domanda, potremo fare un parallelismo tra la nostra Dc ed il partito dei Cristiano democratici del tedesco Konrad Adenauer, che lei affronta attraverso la sua genesi assai travagliata per giungere ad una visione politica liberaldemocratica: una via politica che da mezzo per raggiungere degli obiettivi diventa invece una meta da raggiungere, cioè da condizione operativa passa ad essere valore in sé, tradendo, forse è il caso di dire, i valori fondanti cristiani? E qual è il parallelismo con i democristiani italiani su questa concezione politico-ideale?
GT Il democratismo cristiano non è stato un fenomeno solo italiano. Esso ha avuto una proiezione europea e planetaria (s’intende, dove il cattolicesimo aveva un peso sociale cospicuo, come in America latina).
La sua genesi è di carattere ideologico, piuttosto che operativo.
La prassi che ne consegue si può capire in profondità, solo se se ne conoscono le coordinate teoriche. Non viceversa.
Ovviamente senza misconoscere differenze dovute a particolari contesti o a singole personalità. Il caso dell’impostazione politica di Konrad Adenauer è emblematico. Gli studi più rilevanti al riguardo ne hanno fatto emergere, diversamente da una immagine puramente pragmatica, una visione strategica complessiva. Tale da andare al di là dell’esperienza del Zentrum e di proiettarsi (nonostante la contrarietà esplicita di importanti esponenti della gerarchia ecclesiastica tedesca) nella direzione di una intenzionale “modernizzazione” (nel suo significato ideologico). In questo senso possono essere ravvisati vari elementi per un parallelismo con la linea politica di omologhi esponenti italiani.
AC Infine, professore, cosa è stato il fenomeno politico chiamato Democrazia Cristiana: un bluff o un ideale a cui potersi ancora ispirare? E cosa resta oggi della res pubblica christiana non solo nel nostro Paese, ma nella cultura occidentale in genere?
GT Si può serenamente osservare che l’esperienza politica del democratismo cristiano è irrevocabilmente conclusa, sia per l’approdo del progetto della “nuova cristianità secolare” alla società massivamente ed istituzionalmente secolarizzata, sia perché le stesse condizioni storiche dell’avvento del cattolicesimo democratico organizzato sono ormai insussistenti. Insomma, proprio a partire da se medesimo, è definitivamente tramontato.
Ciò che ne è derivato ne ha segnato la posterità, con il retaggio di una esperienza propulsiva della laicizzazione (particolarmente attraverso la legislazione).
Sotto l’altro versante della domanda, credo si possa osservare che, della res pubblica cristiana, mentre permangono, sotto il profilo sociale, elementi residuali (pur ancora con un certo spessore), sotto il profilo intellettuale, si segnalano fermenti che ne vedono riemergere la prospettiva. In definitiva, al passaggio dalla progettualità della modernità alla processualità della postmodernità, è sulle questioni essenziali, sul “che cosa” piuttosto che sul “come”, che si delineano le alternative decisive per il presente e per l’avvenire.