E’ stata una settimana storica per il Continente Latinoamericano. In Cile migliaia di persone si sono riversate nelle piazze delle principali città per festeggiare la vittoria nel referendum che abroga la vecchia Costituzione redatta sotto il regime di Augusto Pinochet nel 1980. Una carta che per quarant’anni ha represso i diritti degli strati più indigenti della popolazione e delle minoranze, privatizzando i beni essenziali e consentendo a pochi uomini d’affari e alle multinazionali di possedere le risorse strategiche del Paese.
Una lunga battaglia che si è conclusa domenica scorsa con la schiacciante vittoria, con oltre il 78% dei suffragi, del fronte del cambiamento. Un passaggio storico, che rappresenta l’inizio di una fase che porterà il Cile al varo di una nuova Carta, dopo un dibattito tra i 155 deputati che verranno eletti all’Assemblea Nazionale entro il prossimo maggio e che, per la prima volta nella storia, sarà composta paritariamente da uomini e donne.
Alla stesura della nuova Costituzione avranno un ruolo decisivo anche i rappresentanti delle comunità indie, come quella dei Mapuche, osteggiate dal potere centrale che le ha sistematicamente represse per garantirsi lo sfruttamento delle loro terre. Sull’esito della consultazione si è pronunciato il Presidente conservatore Sebastian Pinera, che ha auspicato un lavoro congiunto tra i vari partiti politici che porti al varo di una Costituzione rappresentativa di tutti i ceti del Paese.
Una presa di posizione che porterà inevitabilmente ad un confronto aspro, in quanto il fronte conservatore è stato l’alfiere dei contestatissimi contratti di lavoro collettivi, della privatizzazione della sanità e dell’istruzione, cardini che il movimento progressista vuole drasticamente riformare.
Proprio la carenza di uno stato sociale e la crisi dovuta alla pandemia di Covid-19, che ha lasciato sul lastrico migliaia di persone, ha fatto detonare definitivamente le proteste cominciate nel 2019, che hanno alimentato la volontà popolare di richiedere il referendum per l’abrogazione della Costituzione.
Mentre una parte del Continente Latino festeggia il risultato raggiunto, l’Uruguay fa i conti ed i rimpianti, per la decisione dell’ex Presidente Pepe Mujica di abbandonare la scena pubblica. Il popolare politico, figura iconica della sinistra sudamericana, con un discorso al Senato riunito in sessione straordinaria, ha annunciato il suo definitivo ritiro dovuto all’impossibilità anagrafica di espletare al meglio l’incarico che gli compete. “Quando si ricopre il ruolo di senatore, si parla e si incontrano persone, non si resta negli uffici, e io sono minacciato dall’età e dalla pandemia che incombe e mi risulta impossibile viaggiare lungo le strade del mio Paese”.
Un’ammissione rara, che priva la scena politica latinoamericana di un vero leader che, nel corso del suo mandato presidenziale ha aperto scenari impensabili riguardo ai diritti civili, come la depenalizzazione dell’aborto, il riconoscimento delle unioni omossessuali e la depenalizzazione della marijuana, oltre ad aver rilanciato l’economia uruguayana, applicando un piano di riforme che hanno ridistribuito la ricchezza nazionale.
L’ex capo di Stato e leader del movimento rivoluzionario Tupamaros attivo in Sudamerica negli anni ’70 e ’80, ha scontato dodici anni in carcere sotto la dittatura militare, per poi intraprendere una carriera politica che lo ha portato a rivestire la massima carica dello Stato dal 2010 al 2015. Investitura che ha sugellato rinunciando al 90% del suo emolumento, devolvendolo in favore di programmi destinati ai più bisognosi. Un esempio che ha dato linfa alla nuova onda progressista del Continente Latino, bisognoso di riforme che consentano un equo e sostenibile utilizzo delle immense ricchezze del territorio.