La pandemia da coronavirus ha causato una nuova ondata di inquinamento da plastica
Varie denunce da parte di organizzazioni europee come Surfers Against Sewage o Opération Mer Propre sono arrivate già ad inizio estate: sempre più mascherine e altri dispositivi di protezione individuale vengono ritrovate sulle spiagge e nei mari. Il sospetto è quello di essere nel bel mezzo di una nuova ondata di rifiuti di plastica, proprio quando, a livello internazionale, si iniziavano a fare passi avanti verso materiali più sostenibili. Laurent Lombard, di Opération Mer Propre, scriveva già a maggio: “Sapendo che in Francia sono stati ordinati oltre due miliardi di maschere usa e getta, presto potrebbero esserci più maschere che meduse nelle acque del Mediterraneo”.
Dall’inizio della pandemia, il consumo di plastica è aumentato esponenzialmente. Prima di tutto, a causa dell’esorbitante quantità di dispositivi di protezione individuale (mascherine, guanti, visiere, ecc.), prima utilizzati solo in ambito medico e ora diffusi tra la popolazione. Ma anche per il maggiore ricorso al cibo d’asporto, agli acquisti online e ai prodotti alimentari confezionati. E, ultimo ma non meno importante, per il calo del prezzo del petrolio. La plastica provoca un danno pressoché permanente all’ambiente, specialmente se finisce in mare, dove compromette la salute delle barriere coralline e pertanto anche della miriade di organismi viventi che popolano il loro ecosistema.
Solo nel Mediterraneo finiscono ogni anno 570 mila tonnellate di rifiuti di plastica: per capirci, come riversare in mare 33800 bottiglie di plastica al minuto. Ma qual è la potenziale entità del danno causato dalla crescente massa di rifiuti sanitari che minacciano gli oceani? Qualche dato per farsi un’idea del problema. La Cina già ad aprile produceva 450 milioni di mascherine al giorno. Ammonta invece a 300.000 tonnellate la quantità di rifiuti, tra guanti e mascherine, che si stima prodotta in Italia dal maggio scorso al prossimo dicembre. Se ogni abitante della Gran Bretagna usasse una mascherina usa e getta al giorno per un anno, si avrebbero 66 mila tonnellate di rifiuti di plastica contaminati.
Il grosso problema è che le mascherine, si calcola, impiegano fino a 450 anni per decomporsi. Si tratta di un danno troppo a lungo termine per commettere errori, tanto più che lo smaltimento errato di anche solo l’1% delle mascherine utilizzate nel mondo potrebbe causare ogni mese la dispersione in natura di 10 milioni di mascherine. Nonostante ciò, dall’inizio della pandemia gli Stati hanno fatto grandi passi indietro nella riduzione dell’uso di plastica, con la conseguenza che ora corriamo il rischio che l’UE non raggiunga gli obiettivi, stabiliti due anni fa, del 50% di riciclo degli imballaggi in plastica entro il 2025 e del 55% entro il 2030. Sono numeri su cui riflettere e soprattutto da considerare in abbinamento a un’altra fonte di rifiuti strettamente legata all’attuale quadro internazionale: la filiera alimentare.
Nonostante i sondaggi ci dicano che le persone, in quarantena, mangiano più sano e sprecano meno cibo, i dati reali sembrano mostrare una realtà diversa. La chiusura di scuole, aziende e ristoranti ha creato squilibri non indifferenti nella filiera alimentare, producendo ingenti quantità di rifiuti: negli Stati Uniti, ad aprile, venivano buttati circa 14 milioni di litri di latte al giorno e ogni impianto di lavorazione del pollame distruggeva 750 mila uova non schiuse ogni settimana. Solo nelle prime due settimane di lockdown, a causa dei “panic buyers” (chi si è fatto prendere dall’ansia di fare scorte alimentari e ha svuotato gli scaffali dei supermercati), sono state sprecate 100 tonnellate di cibo.
Il quadro complessivo è preoccupante, ancor più se si considera l’aspetto economico. Si stima che ogni anno, a causa della plastica che inquina le acque, si sprechino oltre 13 miliardi di dollari tra spese di bonifica e perdite finanziarie nella pesca e in altri settori. Solo in Italia, l’impatto del coronavirus sui rifiuti costerà un miliardo di euro. Necessitiamo una strategia nazionale dei rifiuti, un piano di investimenti per portare il settore ad avere strutture compatibili con gli obiettivi europei e incentivi al riciclo e al recupero energetico dei rifiuti. In generale, c’è bisogno che governi e imprese perseverino nel disincentivare l’uso della plastica, o almeno nel sensibilizzare a un suo corretto smaltimento, e nell’incentivare l’impiego di materiali alternativi a minore impatto ecologico.
A livello del consumatore, è utile sapere che raccogliere una mascherina abbandonata a terra non comporta un rilevante rischio di contagio mentre, al contrario, è di grande aiuto per l’ambiente. Similmente a quanto succede con gli altri rifiuti di plastica, infatti, quando finiscono in mare le mascherine raccolgono le alghe e attirano in questo modo piccoli pesci per poi, a catena, arrivare a pesci sempre più grandi, che le possono scambiare per cibo e ingerirle. Se invece la plastica continua a rimanere in acqua, si dissolve nelle famigerate microplastiche, che vengono ricoperte da sostanze potenzialmente tossiche, finiscono nel sistema digerente dei pesci e, potenzialmente, sulla nostra tavola.
Soluzioni alternative, ma di corto respiro, ce ne sono in abbondanza: mascherine riutilizzabili, anche integrate con un filtro usa e getta; visiere di legno e cartone per il personale medico; utilizzo di bioplastiche o plastica riciclata nella produzione di DPI. Tuttavia, perché il cambiamento sia significativo, c’è bisogno di un’azione politica decisa e coordinata a livello globale. Ora più che mai.