La parola

Violenza

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I dati che emergono nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne ed i femminicidi ci consegnano, nel nostro paese, un quadro tragico nel quale ogni giorno si ripetono e moltiplicano fatti gravi ed intollerabili ai quali si presta attenzione ma come se riguardassero un’ altra realtà. Sdegno, riprovazione, condanna, richiesta di misure adeguate si ripetono ogni giorno, ma esiste anche un mondo sommerso, degenerato, dove tutto viene letto in modo distorto, frutto certamente di condizionamenti sociali e storici duri a morire, ma anche segno evidente di come manchi nella società l’elemento cruciale: il rispetto della vita umana nella sua essenza. Nella realtà alla quale ci riferiamo poi subentra un ulteriore elemento: il potere e la gestione di esso basata su stereotipi e schemi duri a morire.

Risultato una tragedia che oltreché personale dovrebbe essere considerata nazionale. La parola che abbiamo scelto, inevitabilmente, è violènza. Con essa seguendo il dizionario che a volte nell’ignoranza generale dovrebbe aiutare almeno a capire l’essenza del problema, si indica la persona, la caratteristica, il fatto di essere violento, soprattutto come tendenza abituale a usare la forza fisica in modo brutale o irrazionale, facendo anche ricorso a mezzi di offesa, al fine di imporre la propria volontà e di costringere alla sottomissione, coartando la volontà altrui sia di azione sia di pensiero e di espressione, o anche soltanto come modo incontrollato di sfogare i proprî moti istintivi e passionali.  

Ancora si parla di ogni atto o comportamento che faccia uso della forza fisica (con o senza l’impiego di armi o di altri mezzi di offesa) per recare danno ad altri nella persona o nei suoi beni o diritti, quindi anche per imprese delittuose (uccisioni, ferimenti, sevizie, stupri, sequestri di persone, rapine). Si vuole indicare anche il singolo atto o comportamento lesivo.

 In senso più ampio, l’abuso della forza (rappresentata anche da sole parole, o da sevizie morali, minacce, ricatti), come mezzo di costrizione, di oppressione, per obbligare cioè altri ad agire o a cedere contro la propria volontà sino all’aberrazione di abusarne sessualmente. Sotto l’aspetto giuridico si parla di violenza fisica quando si attua come costrizione materiale, facendo uso della forza; privata come reato che consiste nel costringere altri con violenza o minaccia a fare, tollerare o omettere qualche cosa, ledendo così la libertà individuale del soggetto e condizionandone l’attività; sessuale come delitto contro la libertà personale che consiste nel costringere con violenza o minaccia una persona a compiere o subire atti sessuali: introdotto nel sistema penale nel 1996 in sostituzione dei reati di violenza carnale. Dalla violenza fisica si distingue poi quella, quella che viene subìta dal soggetto a causa del timore indotto in lui dall’azione esterna e in questo seno come sinonimo di violenza psichica cioè quella che si esercita sull’animo di una persona, mortificandone lo spirito, soggiogandone, annullandone o limitandone la volontà, plagiandola); nel diritto canonico si prevede inoltre una violenza assoluta che si ha quando la resistenza da parte di chi la patisce è totale. Nella gravità del tema tralasciamo espressioni che addolciscono il termine quasi fosse possibile violare qualcosa con intenti bonari o delicati.

Di violenza si parla anche in sociologia, come l’uso distorto o l’abuso della forza contro qualcosa che gode della protezione della legge e del controllo sociale in genere (quindi non soltanto persone, ma anche istituzioni, beni della collettività, ecc.); in senso più ampio, ogni forma di aggressione, di coercizione, di dominio, e anche, più astrattamente, di influenza, condizionamento e controllo delle attività pratiche e più ancora di quelle intellettuali dell’uomo, esercitata non tanto da singoli quanto dalle istituzioni che detengono il potere. Ne consegue un concetto della violenza come fatto sociale con risvolti che riguardano ogni ambito della vita delle persone e delle formazioni o associazioni tra di esse. Nel diritto penale militare, si parla di violenza come  reato in cui incorre il militare che, nell’esecuzione di un ordine o di una consegna, venga a vie di fatto, o che, chiamato a impedire o reprimere un disordine, ecceda nell’impiego della forza. Nel diritto internazionale, è indicato il complesso degli atti di ostilità che il diritto internazionale consente a una nazione di compiere contro un’altra nazione con cui sia in stato di guerra; esiste anche una violenza politica nella pressione che uno stato esercita su di un altro – e in particolare alla fine di un conflitto bellico, lo stato vittorioso su quello avversario – per indurlo a un determinato atto internazionale (accordo, rinuncia, ecc.). Ancora atti, azioni, movimenti e di altre cose, forza impetuosa, veemente, per la più dannosa e talora distruttiva, o comunque ostile.

Comunque la si rigiri e comunque si tenti di spiegarla, la violenza è e resta un comportamento riprovevole, inaccettabile pur costituendo purtroppo un segno indelebile, quasi uno stigma della stessa natura umana. Il cammino della civiltà la nascita dei diritti umani, la comprensione dell’altro, la previsione di forme di deterrenza adeguate possono lenire o diminuire l’impatto di questo fenomeno deviante, ma la storia dimostra come lo sradicamento sia difficile tanto più quanto più ci si avvicina al nocciolo: spesso la violenza germina dalla paura, dal panico di esistere dove l’altro o l’altra diventano conferme della propria inadeguatezza e si arriva a pensare che costringendo, violando, e purtroppo eliminando, si risolva la questione che è invece nel profondo di ogni essere.

Purtroppo la nostra civiltà per quanto assolutamente preferibile rispetto ad altre per molti aspetti, non è riuscita a trovare un valido antidoto. E questo è e resta il problema centrale del quale la violenza di genere, soprattutto contro le donne, è un paradigma spaventoso e agghiacciante che richiama tutti ad una vera palingenesi e al senso stesso di quella che chiamiamo umanità ovvero l’antitesi dell’animalità. Per così dire. Con una postilla: gli animali, quelli che noi definiamo tali, non conoscono la sopraffazione fine a se stessa, l’oppressione motivata dal possesso. Essi vivono guidati dal loro istinto di sopravvivenza. Nella nostra violenza e oppressione non vi è nulla di tutto questo, per questa ragione l’umanità ha raggiunto vette altissime e abissi mostruosi e non riesce a dare senso ed equilibrio alla propria imperfezione. E quanto appena detto non costituisce certo giustificazione alcuna ma un’ombra sanguinosa che non riusciamo ancora ad eliminare.

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