Nella “Critica del giudizio” (1790) Kant parla della categoria del sublime in merito alla potenza annientatrice della natura, di fronte alla quale l’uomo prende coscienza del proprio limite, provando dapprima un senso di smarrimento e di frustrazione, riconoscendo però poi la propria superiorità, in quanto unico essere del creato capace di un agire morale. Spettacoli naturali come nuvole portatrici di tempesta, tuoni, lampi, eruzioni vulcaniche, cascate poderose “elevano la forza dell’anima al di sopra della sua abituale mediocrità e fanno scoprire in noi un potere di tutt’altra specie, che ci incoraggia a poterci misurare con l’apparente onnipotenza della natura”.
Si era ancora agli albori della rivoluzione industriale, quando ancora non erano nemmeno immaginabili le implicazioni funeste dell’agire umano su quella che Kant chiama “l’onnipotenza della natura”. Quasi tre secoli dopo, la comunità scientifica internazionale si chiede se tali trasformazioni siano talmente rilevanti da dover stabilire l’ingresso del nostro Pianeta in una nuova epoca geologica, l’Antropocene.
Siamo tutti consapevoli – chi più, chi meno – di star vivendo in un periodo di grandi trasformazioni, di cui il cambiamento climatico è solo la punta dell’iceberg. Vediamo il mondo intorno a noi cambiare a un ritmo vorticoso e incessante. Siamo bombardati da notizie cupe sul futuro del nostro Pianeta, sulla perdita di biodiversità, sullo scioglimento dei ghiacci, sull’avanzare dei deserti. Sentiamo la terra crollare sotto i nostri piedi.
In una parola, solastalgia – un termine coniato dal filosofo australiano Glenn Albrecht per indicare “una forma di angoscia, psichica o esistenziale, causata dal cambiamento ambientale”. Un posto familiare reso irriconoscibile dal cambiamento climatico o dallo stravolgimento industriale. Una casa diventata improvvisamente poco ospitale mentre i suoi abitanti ancora ci vivono.
Il carico di stress implicito in una simile sensazione può non essere sostenibile per tutti. Se poi si inserisce il discorso nell’ordine di grandezza dei tempi geologici, afferrarne il senso razionale diventa ancora più difficile. L’effetto paradossale che può crearsi è stato definito dalla teorica culturale americana Sianne Ngai suplimity. L’esperienza estetica nella quale lo stupore è associato alla noia, come un sovraccarico di ansia che risulta intollerabile e pertanto improcessabile.
Il Gruppo di lavoro sull’antropocene, facente capo all’esperto di stratigrafia Jan Zalasiewicz, è al lavoro da anni per raccogliere prove scientifiche che l’azione umana abbia catapultato la Terra in una nuova epoca geologica, terminando così l’attuale Olocene, iniziato 12 mila anni fa. Perché venga accettato a livello internazionale, è necessaria la ratifica della Commissione internazionale di stratigrafia, ma il percorso per ottenerla è lungo e tortuoso. Geologico, appunto.
Le prove a sostegno della tesi, proposta per la prima volta dal premio Nobel Paul Crutzen nel 2000, non mancano di certo. Per tutto il corso dell’Olocene, la concentrazione di CO2 nell’aria si è mantenuta tra le 260 e 280 parti per milione (ppm); oggi, abbiamo superato le 410 ppm. Siamo, secondo alcuni scienziati, nel bel mezzo della sesta estinzione di massa: simili fenomeni nel passato sono stati caratteristici di un passaggio di epoca geologica. L’aver bruciato combustibili fossili negli ultimi 200 anni ha differito di molte migliaia di anni la prossima glaciazione. Per non parlare dell’inimmaginabile mole di manufatti artificiali che inondano la superficie terrestre, i “tecnofossili”, che, si stima, rimarranno nelle tracce rocciose per milioni di anni: 1.100 miliardi di tonnellate, più del peso dell’intera biomassa terrestre, al netto del contenuto acquoso.
Finora, un punto fermo c’è: il Gruppo di lavoro ha votato a maggioranza schiacciante la data di inizio dell’Antropocene come la metà del ventesimo secolo. Non c’è, infatti, residuo maggiormente visibile a livello geologico come quello derivante dall’uso di armi nucleari a partire dal test nucleare Trinity nel 1945.
Ci vorranno probabilmente ancora anni prima che la definizione di Antropocene, ormai nota e utilizzata a livello mediatico e profano, venga universalmente accettata dalla comunità scientifica. Nel frattempo, c’è già chi ne propone un superamento. La filosofa Donna Haraway, professoressa emerita all’Università di Santa Cruz in California, adotta in sua sostituzione il termine “Chtulucene”, a indicare un pianeta multiplo, interconnesso su più livelli, che è anche un riconoscimento di responsabilità: ciò che scegliamo oggi avrà implicazioni profonde sul Pianeta che consegneremo alle generazioni future.