Reddito, ricchezza, opportunità: un’analisi delle origini e dello sviluppo della disuguaglianza intra- e internazionale
“La quota del reddito nazionale che va al 10% più ricco della popolazione è aumentato dappertutto”: è con questa tendenza diffusa che Giorgio Giovanni Negroni, professore di Economia della disuguaglianza all’Università di Bologna, introduce, nel corso dell’intervista, l’argomento della disuguaglianza di reddito. Suggerisce di osservarla dalla prospettiva di ciò che accade agli estremi della distribuzione dei redditi.
“Prendiamo la popolazione di un Paese e ordiniamola in base al reddito”, spiega. “Dividiamola poi in due metà: la prima composta dal 10% più ricco e dal 40% più povero, la seconda dal resto della popolazione. Queste parti si dividono il PIL grosso modo a metà”. Possiamo osservare così che la classe media è omogenea pressoché ovunque, mentre l’altra metà della popolazione è caratterizzata dal conflitto.
L’indice di Palma è un valore che rappresenta la suddivisione delle risorse all’interno di quest’ultima. Nel mondo, 17 Paesi, tra cui la Finlandia, hanno un indice di Palma minore o uguale a 1, il che significa che il primo si divide al massimo la stessa percentuale di reddito del secondo.
Altri 87 Paesi, invece, tra cui l’India, hanno un indice di Palma tra 1 e 3: la quota del reddito che va al top 10 è fino a tre volte superiore a quella che va al bottom 40. Nei Paesi dove l’indice di Palma è particolarmente alto, infine, il top 10 prende una fetta non solo dal bottom 40, ma anche dalla classe media.
Da cosa derivano queste profonde disuguaglianze? La risposta affonda le radici nella situazione politica, sociale e culturale degli ultimi tre decenni. “Dagli anni ‘80 in poi, è stata condotta una sorta di esperimento sociale, che gli economisti chiamano supply side economics e i politologi neoliberismo. Alla base, un’idea: la disuguaglianza è positiva, perché necessaria per stimolare l’attività economica”.
Si parla di trickle down (“sgocciolamento”): “l’idea è che, visto che a un certo punto il reddito aumenterà, perché la disuguaglianza ha stimolato i capaci a prendere decisioni per aumentare l’efficienza e la crescita, una parte del reddito sgocciolerà anche sui più poveri”. L’esperimento, però, non funzionato: la disuguaglianza è aumentata e non ha portato crescita.
Permane la convinzione che “la distribuzione dei redditi dipende dalla produttività. Ogni fattore produttivo riceve una ricompensa determinata dal suo contributo alla produzione. Questo giustificherebbe le disuguaglianze in termini di salari”, compreso “l’abisso che c’è tra la remunerazione dei CEO e quella dei loro dipendenti, che negli USA era del 18% nel 1965 ed è diventato del 383% nel 2000”.
Un’apparente fondamento pratico a questa teoria c’è. Spiega Negroni: “Se guardiamo a cosa succede, tra il 1963 e il 2017, ai tassi di crescita dei salari divisi per qualifiche, troviamo che il tasso di crescita di chi ha un diploma post laurea è maggiore rispetto a chi ha una laurea, che a sua volta ha un tasso maggiore rispetto a chi ha un diploma di scuola secondaria, e così via”. Una maggiore produttività deriva da una maggiore competenza, una maggiore competenza da una formazione più avanzata.
Una gerarchia molto più accentuata è osservabile negli stessi anni nel top 10: “il tasso di crescita accumulato dei salari di chi appartiene all’1% più ricco (+157%) è enormemente maggiore rispetto al tasso di crescita dei salari di chi appartiene al 95°-99° percentile (+71%), che a sua volta è superiore al tasso di chi appartiene al 90-95° percentile (+45-47%)”.
Qual è allora il problema? Spiega Negroni: “chi appartiene al top 10 ha avuto le stesse opportunità, frequentato le stesse università e ottenuto le stesse competenze, le stesse abilità, le stesse produttività. Dovremmo allora osservare gli stessi trend per tutti i segmenti di reddito, cosa che invece non succede: se noi prendessimo il 10% del top 1, quindi il top 0,1, troveremmo che il suo salario reale è cresciuto del 340%”.
Considerato anche che, invece, il salario dei lavoratori mediani è rimasto stagnante, Negroni conclude: “ci sono altri fattori che entrano in gioco: le reti sociali di appartenenza, le conoscenze”. Se poi volessimo analizzare la disuguaglianza in termini di ricchezza, scopriremmo che “è distribuita in modo ancora più diseguale rispetto al reddito. Anche nei Paesi in cui il reddito è distribuito in modo più equo, la ricchezza rimane molto concentrata”.
Nella sua recente monumentale opera “Capitale e ideologia”, Thomas Piketty parla di “favoletta meritocratica”, riferendosi all’autogiustificazione dei privilegiati del sistema economico attuale, che stigmatizza chi soccombe per le sue mancanze di merito, di capacità e di diligenza. Ciò è pretesto per parlare dell’ultima sfaccettatura del discorso: la disuguaglianza di opportunità.
Le premesse sembrano innocue: “una volta che siamo posti tutti nelle stesse condizioni iniziali, se uno vince, è perché è più bravo”. Nella realtà economica, però, difficilmente le parti coinvolte sono nella stessa situazione di partenza. Al contrario, “la posizione sociale dei figli dipende in proporzioni importanti dalla posizione sociale dei genitori”.
La disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è inversamente proporzionale alla mobilità sociale: i Paesi caratterizzati da minore disuguaglianza, come i Paesi scandinavi, presentano alta mobilità sociale, mentre i Paesi con alta disuguaglianza, come USA, Gran Bretagna e – ahinoi! – Italia, sono caratterizzati da bassa mobilità sociale. La conclusione? “La disuguaglianza dei redditi determina la disuguaglianza delle opportunità”.
Quest’ultima non risparmia nemmeno l’accesso alla formazione universitaria, “uno dei fattori chiave per ridurre le disuguaglianze e aumentare la mobilità sociale”. Da studi condotti sui test di accesso al college negli Stati Uniti risulta che “la probabilità di uno studente di laurearsi, se è bravo ma proviene da una famiglia povera, è del 28,8%, mentre la stessa probabilità, se è ricco ma non è bravo, è del 30,3%. Ciò significa che lo status prevale sul talento”.
Per provare a immaginare dove questa situazione ci porterà e capire se l’attuale pandemia potrà smuovere le acque, Negroni fa un passo indietro nella storia, affermando che ciò che è successo dagli anni ‘80 ad ora non ha a che fare solo con il cambiamento tecnologico e la globalizzazione, ma anche con il modo in cui la politica li ha regolamentati.
“L’elite in quegli anni ha voluto l’aumento della disuguaglianza”, racconta,” e ha imposto alla politica una serie di provvedimenti, che hanno determinato a loro volta una serie di ripercussioni, come la deregolamentazione dei mercati, del settore bancario e dei flussi internazionali di capitali”. Riassume: “La politica ha deciso di non regolamentare, di non intervenire, e quindi di lasciare esplodere le disuguaglianze”.
Le reazioni alla pandemia, in relazione ai fenomeni appena descritti, sono diverse a seconda del contesto geopolitico di riferimento. “Vedo segnali incoraggianti da parte degli USA, ma temo che l’Europa non li abbia colti e non abbia intenzione di coglierli, a meno che non ci sia un movimento di coscienza dei cittadini tale da imporlo”, auspica Negroni.
La situazione non è migliore dentro i confini nazionali: “se devo guardare alla nostra situazione domestica, ho l’impressione che i segnali incoraggianti siano scarsi. Abbiamo capito che la pandemia aumenterà le disuguaglianze e peggiorerà la situazione di molti, ma finora è stata trattata solo come una contingenza, e non come un problema di fondo”.
Con un ulteriore complicazione: “la compressione delle disuguaglianze nel dopoguerra è stata causata dall’effetto combinato delle guerre mondiali, della rivoluzione russa, della tassazione progressiva, dalla nascita dei sistemi di welfare state e dei governi con partiti di sinistra. Tutti shock esogeni, importanti, colossali”.
Fenomeni tutto sommato non presenti oggi: “la pandemia non è un colossale shock esogeno e comunque sembra agire nella direzione opposta, verso un aumento e non una compressione della disuguaglianza”.