Uno strano destino accompagna il cammino di parole e dei vocaboli nei secoli. In essi a seconda delle circostanze un termine può indicare una cosa, uno stato, oppure il suo contrario. A volte siamo suggestionati dalle radici di tali parole che con interpretazioni anche ardite si vorrebbero far risalire ad una comune origine. Esercizio non sempre corretto ma a volte suggestivo.
E’ questo il caso del termine ostàggio. La sua derivazione diretta è dal francese antico hostage che è probabilmente una contaminazione a sua volta dal tardo latino hospitatĭcum che a sua volta si può far derivare da hospes, ovvero da ospite. E qui si situa la suggestione. Come è possibile ritrovare nelle antiche forme espressive un significato di accoglienza, come quello latino ed arrivare poi alla sua negazione, dove l’hospes cioè diviene oggetto e strumento di rivendicazione e di contrattazione. Strana la sorte potremmo dire di chi viene accolto e poi usato per secondi fini da chi gli ha offerto ospitalità!
Andiamo però come sempre a comprendere il valore del termine, come attualmente è con maggiore (diremmo esclusiva) frequenza utilizzato. Per ostaggio si intende nel vocabolario il cittadino di uno stato nemico che un belligerante tiene in proprio potere e contro il quale minaccia di prendere determinate misure nel caso di eventuali violazioni di un proprio diritto dalla parte avversa; in particolare si intende un abitante di un paese occupato che la potenza occupante sottopone ad arresto e detenzione per garantire, contro ogni possibile atto di ostilità della popolazione, la sicurezza delle sue forze armate e l’esecuzione dei suoi ordini. Gli ostaggi possono essere chiesti, imposti, possono essere consegnati o se ne può proporre lo scambio. Osserva il vocabolario che mentre nel diritto internazionale la consegna di ostaggi è un istituto ormai in desuetudine, è invece sempre più frequentemente praticata la cattura di ostaggi da parte di forze armate irregolari a scopo di intimidazione o rappresaglia, nonostante il divieto esplicito in tal senso formulato dalla Convenzione di Ginevra del 1949 sulla protezione dei civili in tempo di guerra).
Andiamo oltre nell’analisi e constatiamo che nell’uso comune è da definirsi ostaggio chiunque sia preso e trattenuto a forza (da banditi, rapinatori, dirottatori, terroristi, carcerati, o da una fazione in lotta contro un’altra) come garanzia di incolumità o impunità, come mezzo di ricatto, o comunque per servirsene a propria difesa.
Siamo come si comprende in un campo che la storia del secolo breve e anche questo primo scorcio del terzo millennio, mostrano in tutto il suo disvalore, quasi che il divieto stabilito a garanzia dei diritti umani, sia visto invece come una “comoda” risorsa alla quale si fa riferimento quando si vuole ottenere qualcosa che il diritto internazionale, interno o la legge nel suo più vasto significato non permette e che punisce pesantemente.
Talmente è d’uso questo comportamento che organizzazioni estremiste e terroristiche hanno deciso di far ricorso a questo strumento consapevolmente dato che le società liberali e democratiche sono disposte a ogni sforzo pur di liberare persone a loro appartenenti o più in generale a far si ché vengano riconsegnate vive e vegete, anche a cedere a ricatti quasi sempre di natura materiale: soldi, armamenti, viveri e quanto la mente umana può inventare per condizionare la risposta.
Ogni giorno questo sistema in qualche parte del mondo, anche a nostra insaputa, miete vittime e provoca dolore, mentre le risposte sono quasi sempre insufficienti o non all’altezza della sfida, o si trasformano in altrettanti strumenti di imposizione e di violenta reazione a seconda dei paesi e dei sistemi che vengono colpiti.
Una situazione dunque molto complessa e non sempre tale da riportare in equilibrio diritti e doveri delle parti in causa (pur sapendo subito che si verte in un terreno di illegalità e di sopraffazione per definizione).
E’ stupefacente allora notare che la nostra quotidianità politica viva, in sedicesimo e per fortuna senza ostaggi in carne ed ossa, una situazione similare, dove da parte di ognuno si pongono veti, si mettono condizioni, si cerca di spingere gli altri in contraddizione, si tendono trabocchetti nelle procedure, si scovano elementi che possono mettere in discussione l’intero quadro di riferimento. In sostanza si cerca di ottenere con la forza, con l’inganno o con la furbizia, quanto si dovrebbe normalmente conseguire con il confronto, con il dibattito anche aspro ma costruttivo.
Quello al quale assistiamo ogni giorno se da un lato mostra la distanza tra il governo e le forze politiche, dall’altro evidenzia chiaramente come queste ultime privilegino il posizionamento interdittivo, la protesta, la critica feroce e distruttiva con il rischio di mettere in difficoltà il quadro di insieme che però è l’unico che possa metterci nella condizione di accogliere e mettere in atto positivamente riforme e procedure capaci di risollevare il paese e portarlo verso una ripresa dello sviluppo e del rafforzamento del sistema.
Un rebus pressoché quotidiano, dove tutti si esercitano non per la soluzione ma per l’ulteriore complicazione, giocando non una partita democratica di confronto e di crescita come molti si affannano a dichiarare troppo spesso, ma più semplicemente una guerra di posizione con l’obiettivo ultimo di scalzare e di mandare a casa qualcuno che non si condivide e di cercare di trovare la strada per rafforzare il proprio peso politico e parlamentare. In questo quadro di insieme tutto fa brodo potremmo dire ed anche tentare di tenere in ostaggio – pur smentendolo nelle parole – non solo il governo ma l’intero paese con le sue incertezze, i suoi dubbi e le sue esigenze pressanti. Un gioco pericoloso!