Sì, Va Beh? …. Però!
Espressione consueta che denota la precisa volontà di non prendere mai posizione chiara e netta di fronte alla realtà, trincerandosi sempre dietro il dubbio considerato benefico anche contro l’impossibilità di dimostrare il contrario di quello al quale si assiste.
E’in questo incipit, il senso profondo e immorale di coloro che non vogliono assumere responsabilità neppure quella di pensare con la propria testa, saper discernere in modo autonomo. Non è qui in discussione la necessità di verifica attenta e disinteressata degli avvenimenti, ma quell’atteggiamento preconcetto e senza speranza che avvolge ancora molti di coloro che nella bambagia del pensiero unico comunista di una volta, ritengono senza fondamento alcuno e con stupida alterigia di poter dare pagelle a chiunque, di valutare qualsiasi cosa con il metro dimostratosi storicamente fallace di una costruzione teorica della storia e della realtà peraltro nei fatti attuatasi in società arretrate non previste dalla teoria stessa!
A questo punto avvicinimoci al termine scelto, ovvero relativismo. Come ogni parola alla quale viene applicato il suffisso “ismo” ne discende talvolta un che di non positivo, di spregiativo, di degenerazione del sostantivo di riferimento. Ma andiamo con ordine. Con questo vocabolo si intende secondo il dizionario la teoria o concezione filosofica o scientifica fondata sul riconoscimento del valore soltanto relativo, e non assoluto, della conoscenza della realtà, o sul carattere relativo di determinati fenomeni, enti e grandezze, si pensi al relativismo filosofico soggettivistico di cui parla Protagora e la filosofia dell’antichità, per cui il reale non può essere conosciuto nella sua assolutezza in quanto la conoscenza è condizionata e modificata dal soggetto, cioè dalla coscienza, che opera la sintesi conoscitiva dell’oggetto,
Esiste poi lo stesso concetto ma “oggettivistico” o “positivistico” per cui ogni conoscenza è limitata alle relazioni dei fenomeni tra loro, e non può mai estendersi alla realtà assoluta e unitaria che sta a fondamento di quel complesso di relazioni. Ancora si pensi a quello scientifico, fondato sul principio o sulla teoria della relatività (quel grande riferimento che da Galilei porta sino ad Einstein passando per Newton, nel campo della fisica.
Più in generale si parla di relativismo etico, che sostiene l’impossibilità teoretica di ridurre a unità sia i molteplici valori etico-culturali riscontrabili etnograficamente, sia i diversi e contrastanti principî etici emergenti nelle società pluralistiche contemporanee. Di qui discende anche quello culturale ossia la concezione sostenuta dall’antropologo statunitense Melville J. Herskovits (1895-1963), secondo la quale i valori e le istituzioni di ogni singola cultura si impongono e si giustificano per sé stessi: non devono quindi essere giudicati sulla base di criterî appartenenti ad altre culture (atteggiamento questo ritenuto caratteristico dell’etnocentrismo. Potremmo a questo punto definirlo la concezione fondata sul riconoscimento del valore soltanto relativo, e non oggettivo o assoluto, sia della conoscenza, dei suoi metodi e criteri (r. gnoseologico), sia dei principi e dei giudizi etici variando tutti da individuo a individuo, da cultura a cultura, da epoca a epoca.
Il concetto, con estrema sintesi, porta con sé come evoluzione quella dell’individualismo sia singolo che di massa impedendo in sostanza che si applichi un metodo od una misura sulla quale valutare gli accadimenti. Come si vede quel senso non positivo del quale si parlava è insito nel significato stesso della parola e del concetto che ad essa sottende.
Tra le reazioni a questa ricostruzione da un lato, individuale, si radica il senso profondo di anarchia per il quale ogni essere deve agire solo e soltanto in base alle proprie idee e volontà; dall’altro lato, quello di massa, si è cercato nel tempo di fondare forme di governo, di controllo, dei comportamenti degli individui, tentando di trovare una misura media nella quale fondare regole, leggi e comportamenti. Indubbio osservare che in ognuno di noi esiste una parte di anarchia e quasi per reazione una sorta di acquiescenza al pensiero dominante per trovare equilibrio e rassicurazione nei confronti della prima.
E’ altresì evidente che portare alle estreme conseguenze questa seconda opzione comporti la creazione di universi concentrazionari, di sistemi dove l’individuo come tale viene considerato rischioso se libero e quindi il sistema si costruisce ed alimenta attraverso forme sempre più sofisticate di controllo e di convincimento.
Per tornare all’inizio, non si comprende che chi vive, opera e si è affermato in un sistema diciamo liberale, aperto, ancorché contraddittorio, possa dimostrarsi così privo di lungimiranza da asservirsi a concezioni che l’individuo negano. Anche perché la negazione dell’individuo è il primo passo verso la negazione della massa nel suo senso “pensante” per così dire. Poi il passo è sempre più breve per arrivare a negare l’esistenza di popoli, nazioni, e così via. Nel secolo breve, gli esempi sono molti, il più tragico che dovrebbe insegnarci oggi moderazione, è certamente il nazismo. Ma sbaglia chi pensa che il fine ultimo possa essere il comunismo od altra forma assolutista (quasi monarchica o imperiale). Qui troviamo il senso negativo dell’agire di Putin che molti, troppi, si ostinano a ritenere difensore di qualcosa. Il vero dilemma è come aiutare il popolo russo ad affrancarsi da quello che sembra un destino ineluttabile: quello di non essere mai libero di scegliere!