Le celebrazioni della Liberazione, i distinguo e l’odio di fondo
Ogni anno, da troppi anni le celebrazioni del 25 Aprile giorno della Festa della Liberazione del paese dalla tirannide sanguinosa del nazifascismo non sono occasione di unità, di conciliazione, di accoglienza e soprattutto di democrazia. Ogni anno, da troppi anni, assistiamo ad uno stanco rito che viene preso a prestito ora da una minoranza ora dall’altra, per portare acqua al proprio mulino. L’unica cosa che veramente dovrebbe essere celebrata è il momento che segna l’inizio del cammino verso la democrazia del nostro paese e nella direzione del superamento delle logiche di parte, delle conventio ad excludendum, degli ukase, delle negazioni e delle ottusità che ne fanno idegno corredo.
Invece, ogni anno, da troppi anni, ognuno pensa al proprio 25 aprile e non a quello di tutti. Il presidente della Repubblica, sin da suo primo settennato si è impegnato con rigore e con saggezza a cogliere i segni di malessere e a intervenire laddove fosse opportuno per mantenere quell’equilibrio sano che dovrebbe essere il sale della democrazia. Equilibrio appunto, da mantenere! Il messaggio è efficace e raggiunge la stragrande maggioranza dei cittadini. Tuttavia, in ogni occasione, anno dopo anno, il valore della Liberazione, della Resistenza e dell’apporto ineliminabile degli Alleati alla nostra risorgenza, appare offeso e denigrato da qualcuno. È la libertà, si potrebbe dire, soltanto che coloro che agiscono non sono affatto democratici e niente affatto libertari, diffondendo sempre messaggi di odio, di contrapposizione al limite della violenta soppressione dell’altro. Un tratto che fatta salva una sana maggioranza dei cittadini, richiama però troppe e settarie posizioni. E questo sia da destra come si potrebbe pensare ovvio, che da sinistra, dove invece la forza dell’ideale avrebbe dovuto far da argine all’ottusità mentale, alla riedizione trita e ritrita di concezioni superate dalla storia e soprattutto dal nostro cammino.
Chi scrive, onora ogni giorno la memoria di un proprio parente ucciso dai nazifascisti nel campo di concentramento di Mauthausen. Un ufficiale dell’Aeronautica deportato come militare italiano in Germania e internato che rifiutò di aderire alla RSI. È quindi evidente che l’atteggiamento che ne consegue non possa essere tenero nei confronti di rigurgiti inappellabili e cancellati dalla storia.
Chi scrive nasceva otto anni dopo la fine della seconda guerra mondiale e della lotta di Liberazione e crebbe nei primi anni di vita nel racconto e nel ricordo di cosa era stato il ventennio e dell’esperienza dolorosa e sofferta che riguardò la stragrande maggioranza degli italiani. Echi lontani, ricordi vividi e indelebili che a ritroso arrivavano sino al primo conflitto mondiale nel quale l’Italia divenne un paese “normale” a fianco degli altri in Europa e nel mondo. Un’Italia dove però differenze, diseguaglianze e gravissime difficoltà facevano già intravedere un futuro non equilibrato, come in effetti non fu e portò al fascismo e alla mostruosità della guerra.
Negli anni, la ripetizione stolida e poco lungirimirante dell’eredità di quella stagione di lotte partigiane e per la libertà, le convulsioni alle quali il paese andò ripetutamente incontro in diverse tragiche occasioni, hanno fatto scolorare quei valori fondanti e significanti e che si potrebbero racchiudere in pochissime parole: libertà, democrazia, eguaglianza, rispetto dell’altro. Le più alte pagine della dura lotta di Liberazione, i momenti nei quali a prevalere non fu solo l’odio e la violenza, ma la volontà di preparare un mondo nuovo che su quelle parole si fondasse a barriera perenne contro ogni degenerazione, parole sempre valide e che scaldano i cuori, sono state troppe volte utilizzate per dividere, attaccare, motivare i peggiori istinti. Quasi a non voler mai superare per far crescere il Paese certi modi e certe visioni legate senza speranza ad un mondo che non c’è più e che voler a tutti i costi mantenere in vita è solo foriero di male piante.
Ecco perché le celebrazioni dello scorso 25 Aprile sono state ancora una volta teatro di tristi e inaccettabili teatrini, nei quali si è mischiato l’oggi con il passato da celebrare offendendone il valore facendo riaffacciare quei peggiori istinti che anche in quella lontana epoca da qualche parte fecero capolino. Ecco perché al di là dei dicorsi ufficiali, del comune sentire della maggioranza del popolo italiano, assumere e propagandare messaggi di odio, di divisione legati a vicende di oggi frutto di un’invasione militare tragica nel suo significato profondo e non solo per quello che sta provocando, è fuorviante, poco lungimirante e soprattutto mette sullo stesso piano cose che non possono esserlo: la Liberazione è stata una pagina di vita, di ritorno alla vita e alla possibilità di decidere il proprio percorso. L’aggressione militare russa, la sua violenza, il suo lemma di partenza, la negazione dell’altro, sono invece pagine di morte e di distruzione in nome di un istinto primordiale che la civiltà dovrebbe contenere ed annulare. E che oggi come 77 anni fa hanno lo stesso sapore amaro e che trasmettono la convinzione che oggi come allora dovremmo ricostruire tutto ciò che è venuto a mancare e soprattutto ciò che più grave è stato devastato e distrutto, non soltanto un paese, ma il senso stesso della convivenza civile!
Ecco perché nella tristezza dei giorni odierni stona, ha stonato e stonerà sempre ogni strumentalizzazione e ogni lesione dei sentimenti di civiltà e di diritti dell’uomo, diritti appunto, non pretese. E i senza se e senza ma che sono risuonati nel vuoto cosmico di questa otturistà, i distinguo bizantini, i non allineamenti non con i contendenti ma con i principi inalienabili della democrazia compiuta, lasciano senza parole, attoniti sulla caducità e sulla stoltezza dell’umanità!
Con dolore, per chi non poteva per nascita far parte della lotta di Liberazione, ma ne ha compreso negli anni i molteplici aspetti e approfondito nella storia tutti gli aspetti possibili, la conclusione è triste: una nuova, occasione persa! Da anni, da troppi anni!